BookCloud: CAPS LOCK di Ruben Pater (Valiz, 2021)

with Noemi Biasetton, BookCloud, Conversation, ITA, 2023

CAPS LOCK
How capitalism took hold of graphic design, and how to escape from it
Ruben Pater
Valiz, 2021 (EN)
11,7×18,4 cm, 552 pp.

Presentazione del libro

Nel dibattito contemporaneo rispetto alla progettazione, numerose autrici e numerosi autori stanno cercando di ridisegnare i margini di pratiche che, ormai da troppo tempo, sono legate intrinsecamente (e tristemente) a posizioni dettate dal privilegio – geografico, economico, di genere. Tra di loro c’è Ruben Pater, designer e autore olandese, che attraverso la sua ricerca prova a riconfigurare il mestiere della progettazione attraverso nuove lenti critiche.

Nel suo ultimo libro, CAPS LOCK. How capitalism took hold of graphic design, and how to escape from it, Pater ripercorre la storia del graphic design descrivendo la sua alleanza (spesso scomoda) con il capitalismo. Dallo scriba all’hacker, fino ad alcuni esempi di pratiche ‘alternative’, l’autore si chiede come sia possibile ‘sfuggire’ a un sistema di cui ancora oggi è difficile immaginare la fine.

Questo testo, che costituisce un ottimo strumento didattico per chi si approccia al mondo della progettazione, riapre un dibattito fondamentale rispetto alla figura del designer come agente di cambiamento sociale. Infatti, oggi più che mai, è necessario chiedersi come (e se) questa professione riuscirà a prescindere dal suo passato e a creare le condizioni per un nuovo futuro, sia esso all’interno o all’esterno della morsa capitalista.

CAPS LOCK. How capitalism took hold of graphic design, and how to escape from it è il secondo libro di Pater, preceduto da The Politics of Design: A (Not So) Global Manual for Visual Communication (BIS, 2016).


Noemi Biasetton: Per introdurre il libro di Pater, credo possa essere utile partire da un testo del 2017 intitolato Economies of Design1 e scritto dal ricercatore e professore inglese Guy Julier, che cerca di spiegare il rapporto complesso venutosi a formare nel tempo tra la progettazione e i sistemi capitalisti neoliberali dei paesi occidentali.

Nell’introduzione del libro, Julier spiega come il design operi in due modi in relazione al neoliberismo: da una parte producendo gli oggetti che vengono utilizzati all’interno dei suoi sistemi (creando merci, ambienti, immagini, servizi, ecc.); dall’altra, invece, contribuendo, con un ruolo più simbolico, alla produzione culturale tramite la materializzazione del probabile, e quindi svolgendo un ruolo che l’autore definisce ‘semiotico’ nel far apparire ragionevole il cambiamento2. Questa è senza dubbio una delle più grandi contraddizioni che Pater sottolinea all’interno del suo libro, dove mostra come la progettazione sia effettivamente dotata di un potere ambivalente, per cui da una parte cerca di sottrarsi alle logiche capitaliste e dall’altra ne è intrinsecamente complice. È la stessa differenza che Julier sottolinea nell’introduzione del suo testo, nel passaggio tra le “economies of design” e le “design economies”, dove le prime si riferiscono ai vari modi in cui il design è emerso come una caratteristica vitale dei sistemi economici neoliberali, e le seconde indicano una modalità in cui il design è il motore per l’organizzazione di un contesto nuovo – ossia dove il design diventa un progetto in grado di creare diverse forme di produzione di valori rispetto a quelle già esistenti3.

Per sottolineare questi diversi ruoli che chi si occupa di design assume nei confronti del sistema capitalista neoliberale, CAPS LOCK si suddivide in tre parti, ognuna delle quali utilizza diverse personificazioni del designer come mezzo narrativo: dal designer come scriba, al designer come hacker anticapitalista. Cosa ne pensi di questa struttura che Pater adotta per dirigere l’esposizione del suo libro?

Silvio Lorusso: Hai fatto un’introduzione molto utile perché non solo crea un ponte con altri testi che hanno affrontato lo stesso tema, ma soprattutto mette in evidenza l’ambizione del progetto di Pater, che prova a fare qualcosa di quasi inaudito: affrontare la storia del capitalismo nella sua interezza (partendo addirittura da prima della rivoluzione industriale) e quindi riscrivere, in un certo senso, la storia stessa del design. L’idea forte del libro, a livello strutturale, è proprio quella di personificare la figura del designer attraverso i vari ruoli che l’autore gli attribuisce. Questo è innanzitutto un vantaggio editoriale, perché consente al libro di non essere vincolato a un filo cronologico ma di seguirne piuttosto uno tematico, e quindi di proporre questa relazione tra design e capitalismo come se fosse una sorta di mosaico piuttosto che un’evoluzione lineare. È un’idea eccezionale, perché in altri testi in cui si prova a fare lo stesso – ovvero a ricostruire in maniera cronologica e progressiva il rapporto tra design e capitalismo – il rischio è di spegnere anche la ‘passione’ che porta ad avvicinarsi a questa tematica, derivante generalmente da una spinta antagonista. D’altronde lo stesso profilo di Ruben Pater, che è attivo in un gruppo anarchico olandese, può aiutarci a capire come questo libro serva effettivamente ad ‘accendere gli animi’ rispetto ad altri testi di stampo più accademico come Economies of Design di Julier o Design after Capitalism di Wizinsky4 (che comunque, insieme a CAPS LOCK, credo formino una triade di testi fondamentali per approcciarsi alla questione della relazione tra design e capitalismo).

C’è però un altro aspetto da sottolineare rispetto all’organizzazione dei contenuti di questo libro, e cioè che la struttura del volume riflette una sorta di ‘bias’ che lo stesso Pater non esprime del tutto, ossia l’idea che chi lavora come designer possa porsi in ruoli diversi, alimentando la classica concezione di questa figura come versatile e mutevole, che è anche a suo modo ideologica. Sebbene questa suddivisione del designer in vari ruoli fornisca il punto di partenza per la creazione di una struttura intelligente e innovativa, il libro sembra non mettere mai esplicitamente in discussione l’idea, di matrice neoliberale, di un soggetto costretto a reinventarsi costantemente. Ironicamente, il passaggio del designer ‘as’ qualcosa viene utilizzato come strumento per criticare il capitalismo, ma al tempo stesso questa sfaccettatura estrema della professione deriva precisamente da una costruzione del soggetto neoliberale. Avrei apprezzato che nel volume questo concetto fosse reso in maniera più esplicita, quantomeno nell’introduzione, ma è chiaro che, a livello implicito, questa idea c’è, e forse è proprio ciò che rende il libro così forte.

NB: In effetti non avevo ancora riflettuto sul fatto che, in realtà, l’utilizzo di queste figure così diverse descritte da Pater potrebbe essere letto come una sorta di metacritica che lui fa al sistema capitalista, un sistema che richiede alle varie professioni relative alla progettazione di ri-adattarsi continuamente per sopravvivere. A mio avviso, attraverso queste dodici ‘incarnazioni’ della figura del designer, l’autore è anche in grado di far percepire una sorta di dualismo che pervade la progettazione; questo dualismo, però, una volta traslato sul piano lavorativo, dà vita a un sistema molto complesso e contraddittorio, incarnato dalla realtà degli studi di progettazione che, come sappiamo bene, sono spesso il primo luogo dove un progettista incontra per la prima volta forme di sfruttamento lavorativo, ma che altrettanto spesso si vendono come spazi fatati dove poter creare il ‘nuovo’. Secondo Pater, un nuovo tipo di consapevolezza rispetto al proprio ruolo all’interno dei sistemi capitalisti neoliberali, così come anche un nuovo tipo di azione, possono essere acquisiti attraverso la cooperazione: nel capitolo “The Designer as Worker”, sostiene infatti che “le organizzazioni di design possono svolgere una funzione sociale, organizzando i designer a livello locale, discutendo le questioni del settore in modo collettivo e facendo lobbying o contrattazione collettiva”5.

Secondo te, la creazione di sindacati o altre forme di organizzazione a livello locale è necessaria per ottenere migliori condizioni di lavoro per chi lavora come designer e per creare modelli economici alternativi? Ma soprattutto, credi che possa essere un orizzonte realizzabile nel campo della progettazione?

SL: Questa è una questione complessa, perché le associazioni di categoria nella storia del design non si sono quasi mai identificate come veri e propri sindacati, pur essendo a loro modo ‘gruppi solidali di mutuo aiuto’. Al contrario, la maggior parte di queste sono spesso principalmente di natura professionalizzante e quindi basate su un’idea di merito e di eccellenza, come spiega molto bene Pater nel capitolo dedicato al ‘Designer as Professional’. Quindi, paradossalmente, quando vediamo le associazioni di categoria più riuscite, come ad esempio l’AGI6, ci imbattiamo in sistemi che non fanno nulla per scalfire le logiche di produzione di soggettività capitalistiche. Per quanto riguarda la cooperazione di tipo sindacale nel design, invece, devo dire che l’aspetto più critico che si può riscontrare – e che denota anche una certa debolezza dell’approccio politico a questo settore – è che la lotta legata al lavoro spesso non ha nulla di specifico rispetto al design di per sé, perché vale per qualsiasi professione creativa. Quindi il problema che ci si deve porre effettivamente è: qual è il contributo specifico che il design può apportare nel mondo per trasformare le operazioni del capitale? Domanda che si poneva già Tomás Maldonado negli anni Settanta. Perché altrimenti il rischio, secondo me, è che si insista su delle dinamiche generali perdendo di vista la sostanza, certamente mutevole, della cultura del progetto. Ovviamente porsi questo problema di per sé non è un male: il fatto che Pater porti una cultura di tipo sindacalista all’interno del design è più che lecito, però siamo senza risposte in merito a che cosa il designer come tale possa poi effettivamente fare all’interno di questa lotta. Forse la risposta è insita nella domanda stessa, nel senso che il sindacato o l’associazione di categoria legata al design rappresentano magari la direzione meno convincente, la meno fattibile, perché è necessario considerare il design sia in senso orizzontale che in senso verticale. Per esempio, quando ci si incontra per decidere se e come creare un sindacato, ci si potrebbe ritrovare nella stessa stanza con una art director che ha uno stipendio a più zeri, così come con il giovane stagista che non è pagato. Quindi viene spontaneo chiedersi: qual è l’egida sotto cui bisogna bisogna unirsi? Io non credo che sia quella del design. Penso che ci siano forme di associazione o categorizzazione più forti. In Italia c’è Art Workers7, ad esempio, che cerca di dare voce a chiunque lavori nel mondo dell’arte, e che prova a includere anche i designer, manifestando quindi un’apertura rispetto alla questione delle categorie singole. Un’altra soluzione che trovo molto convincente, e che sta mostrando i suoi risultati, sono i gruppi di natura sindacalista all’interno di grossi studi o di grosse istituzioni, soprattutto le scuole; in questo senso abbiamo assistito alle proteste presso il Royal College of Art di Londra, così come alla nascita di veri e propri sindacati in molte delle scuole di design olandesi. La ragione per cui questo tipo di associazioni ha più successo, o quantomeno il motivo per cui questi gruppi hanno modo di intervenire in maniera fattuale, è semplicemente perché le loro rivendicazioni sono mirate poiché legate a un contesto tangibile e concreto. Agiscono sulla base di problemi specifici che poi possono diventare universali. Perciò io credo molto nel sindacato relativo all’istituzione, e credo meno in quello generico relativo a un gruppo troppo ampio di design, perché la categoria dei designer di per sé non esiste, in un certo senso è un’astrazione.

Oltretutto, io credo che l’idea del ‘Designer as Worker’, trattata nel libro in maniera piuttosto estesa, dipenda anche da una costruzione estetica dell’idea del lavoratore – non solo nel design, ma in qualsiasi campo. Pensiamo solo all’operazione di Vetements8 rispetto al vestiario legato al lavoro, il cosiddetto workwear, e in generale all’accostamento di un certo tipo di abbigliamento a una nuova idea di estetica legata alla manodopera. Il punto più importante della questione, secondo me, è che il discorso del designer come lavoratore, paradossalmente, viene portato avanti, manifestato e idealizzato negli ambiti più lontani dal contesto ‘operaio’. Al contrario, sono le sfere più ‘professionalizzate’ – ovvero quelle educative, quelle d’avanguardia, in scuole tipo Yale o Rhode Island, o addirittura quelle olandesi dove insegno anche io – che sembrano voler definire l’etica-estetica del ‘Designer as Worker’. Ed è proprio per questo che le domande da porsi – o quantomeno quelle che interessano a me, che sono immerso in un ambiente del tutto professionalizzato – non riguardano tanto il designer come lavoratore, ma piuttosto il designer come professionista. La domanda che il designer (iper)scolarizzato deve porsi oggi, secondo me, è sì come si diventa un professionista, ma anche e soprattutto, cosa vuol dire essere un professionista. Per me, essere un professionista oggi vuol dire anche occupare degli spazi tematici che hanno il loro fascino e la loro influenza; paradossalmente, si può diventare dei professionisti delle rivendicazioni della classe operaia. E ritengo che sia proprio questo ciò a cui noi stiamo assistendo.

NB: Certo, è chiarissimo. Aggiungo però che la questione del lavoro penso debba essere letta anche attraverso il tema dell’educazione che si riceve nell’ambito della progettazione – che può essere tanto liberatoria quanto restrittiva nell’immaginare i nuovi orizzonti di questa professione. Nel suo libro, Pater parla molto criticamente del sistema didattico in questo settore, e nel capitolo “The Designer as Educator” scrive che “Un’educazione al design che voglia produrre menti creative e critiche dovrebbe iniziare ascoltando i bisogni delle persone, piuttosto che quelli dell’industria”9. Credo che questa sia una frase fondamentale, perché evidenzia la grande distanza che ancora sussiste tra un certo tipo di discorso che si sta sviluppando nel campo della progettazione e la realtà di istituzioni che, molto spesso, operano in senso diametralmente opposto. Tuttavia, allo stesso tempo, per me sono proprio i “bisogni delle persone” di cui parla Pater a essere maggiormente problematici all’interno dei sistemi capitalisti: prima di tutto per la difficoltà nel capire quali siano, e in secondo luogo nel determinare chi debba dar loro voce. Se pensiamo alle scuole di design, per esempio, è chiaro come queste siano solo il culmine di un processo di scolarizzazione all’interno del quale una persona nasce e cresce, e la cui forma mentis è già stata fortemente modellata da una serie di fattori biologici, sociali e culturali (come ci ricorda la teoria dell’intersezionalità di Crenshaw10) che hanno contribuito a plasmarne l’identità.

Se ci rifacciamo specificamente al contesto italiano, dove la maggior parte delle università pubbliche e private di design sono per molti versi promotrici di un futuro al servizio delle imprese per chi si laurea, diventa difficile immaginare come possano essere gli studenti e le studentesse a esplicitare i propri bisogni (relativi ai costi dell’educazione, al programma didattico, alle dinamiche educative, al rapporto con il corpo docenti). Soprattutto in un contesto, quello italiano, dove le possibilità educative al di fuori dell’ambito universitario esistono ma sono scarse, spesso molto costose o di difficile accesso, o semplicemente non riconosciute a livello burocratico.

Rispetto a questo tema, c’è una teoria che ho trovato estremamente interessante nel tuo articolo per il New Design Congress11 rispetto alle cause di questa impasse, ovvero l’isteresi dell’habitus di Bourdieu – una teoria secondo la quale le disposizioni acquisite in uno spazio sociale definito persistono nel tempo. O, come sintetizzi tu, l’applicazione di una prospettiva obsoleta a un contesto mutato. L’isteresi è spesso conosciuta anche come ‘effetto Don Chisciotte’ (non a caso uno dei libri preferiti di Marx) proprio perché simile agli effetti stranianti vissuti dal protagonista, che derivano dalla sopravvivenza di modi di vita e di ideali feudali in un mondo in cui il feudalesimo è però scomparso. Secondo te, nel contesto italiano delle scuole di design, come è possibile superare questa isteresi? E su quali attori ricade la ‘agency’ per fornire questo cambiamento?

SL: Se ci muoviamo nel contesto italiano, credo che l’effetto di isteresi sia presente nel modo in cui il programma delle scuole di design è formulato, e che il momento che pare impossibile da superare sia il trionfo del cosiddetto ‘made in Italy’, quello dei maestri degli anni Sessanta e degli ‘imprenditori illuminati’. Io penso che esistano una serie di modalità attraverso cui è possibile scardinare questo modello. La prima soluzione consiste nel contestualizzare sociologicamente ed economicamente le condizioni di quel periodo storico, cosa che pian piano si sta facendo. Dall’altro lato, è però bene ricordarsi che i momenti storici che hanno avuto il più grande impatto sulla didattica sono partiti e partono proprio dagli studenti e dalle studentesse – come il ’68 e il ’77, fino ad arrivare ai Fridays for Future. Io credo dunque che questa speranza negli studenti non sia del tutto malriposta. Un elemento da aggiungere, però, è che uscire dal problema dell’isteresi vuol dire anche essere in grado di capire il contemporaneo: di saper esprimere chiaramente, se non brutalmente, come stanno le cose oggi. Ora, chi è in grado di fare questo? Io non credo che la risposta sia relativa a una questione anagrafica. Penso, anzi, che il raggiungimento di un cambiamento effettivo non dipenda da una specifica generazione, ma piuttosto dalla creazione di una prospettiva ad ampio raggio che coinvolge tutti e tutte. Lo dico in particolare perché mi sembra di notare sempre più spesso, nei discorsi progressisti e anticapitalisti, una tendenza a quello che gli anglosassoni chiamerebbero ‘ageism’, e che secondo me comporta dei grossi rischi. Come molti aspetti del capitalismo, anche quello della differenza di età è paradossale. Perché se io, diciottenne, inizio a riferirmi a una docente più anziana come vittima dell’effetto Don Chisciotte, sto implicitamente dicendo che quella docente è obsoleta come professionista, di fatto rinforzando il solito discorso del nuovo, dell’innovazione, della creatività distruttrice di matrice tipicamente capitalista. Bisogna, dunque, fare sempre molta attenzione che le modalità con cui vengono portate avanti certe istanze non finiscano per riconfermare le stesse logiche che vogliono scardinare.

NB: Da questo punto di vista, Pater esprime molto chiaramente come sia necessario imparare a condividere una ‘agency’ più collettiva, e che non riguardi sempre e solo le azioni del singolo o di una determinata categoria all’interno del sistema, come ad esempio quella di chi studia o di chi lavora. In particolare, nelle conclusioni, Pater parla del ‘commoning’ come possibile via di uscita dai dettami capitalisti (principalmente rifacendosi alle teorie espresse da Bianca Elzenbaumer nella sua tesi di dottorato12) e spiega come questo approccio potrebbe facilitare un passaggio dalla competizione alla cura nelle pratiche di progettazione.

A differenza di Miessen, che nel suo volume The Nightmare of Participation (Crossbench Praxis as a Mode of Criticality) declinava la figura del ‘crossbencher’ solo al singolare, nel suo libro Pater richiama i progettisti e le progettiste alla condivisione dei propri beni e dei propri saperi attraverso delle forme di collettivizzazione e cooperazione. Tuttavia, così come con Tommaso Guariento abbiamo discusso su quale fosse il ruolo della collettività quando abbiamo parlato di Miessen13, oggi vorrei chiedere a te quale sia il ruolo della persona singola nel libro di Pater. Secondo te c’è spazio, oltre al ‘commoning’, per una pratica critica svolta dal singolo per ‘sfuggire’ ai sistemi capitalisti neoliberali?

SL: Innanzitutto, è fondamentale capire fin da subito cosa intendiamo quando parliamo di collettività, perché penso che il termine spesso rimandi a un concetto troppo generico. In questo senso, il caso di Brave New Alps14 ci viene in aiuto, perché il loro gruppo insiste molto su un tema che, secondo me, è il punto cardine del problema: la collettività locale. Loro sostengono che si debba trovare il coraggio di legarsi a un luogo (nel loro caso, di tornare a casa) e di affidarsi a una comunità, comunità che ovviamente si relaziona ai problemi globali, ma che ha le sue radici in un posto specifico. Se si vuole veramente provare a superare l’attuale impasse, bisogna ammettere che è difficile formare una collettività autentica senza accettare questo compromesso. Il designare un luogo come casa, nel momento storico che stiamo vivendo, è la scelta più difficile che si possa fare. Le ragioni sono molteplici, e riguardano la propria sfera sociale, le proprie necessità, e la propria volontà. Questo, secondo me, potrebbe essere il primo passo per cercare di capire come gestire le dinamiche isteriche di migrazione a cui non solo assistiamo, ma a cui partecipiamo. Lo dico anche a partire dal mio vissuto personale, perché non mi sento in alcun modo di aver trovato la quadra (mi chiedo quanto il mio contesto sociale in Olanda si possa considerare una comunità in senso ‘elzenbaumeriano’). Quindi, prima di parlare di commoning, credo sia il caso di parlare della questione del luogo. E quando mi chiedi quale sia lo spazio per l’individuo in tutto questo, credo che tu stia ponendo una domanda fondamentale, specialmente quando si parla di lavoro, di professionalità e di classe creativa15. Quello che bisognerebbe tenere a mente è che la questione della collettività va sempre inserita all’interno di un quadro più ampio, quando si parla di capitalismo. Nel senso che spesso si pensa al capitalismo come celebrazione dell’individuo, avarizia, accumulazione… ma sbagliamo, perché il capitalismo secondo me non è questo. Il capitalismo è innanzitutto una questione di dialettica – tra se stesso e ciò che appare come il suo contrario. C’è sempre una relazione tra l’individualismo spinto e il romanticismo che ci porta a pensare che la creazione di una comune sia la scelta corretta da fare per ‘sfuggire’ alla morsa capitalista. Pertanto, ogni volta che si inserisce il negativo (che dal punto di vista di un anticapitalista è il positivo) bisogna ricordarsi che questo è spesso comunque un prodotto del capitalismo. Per esempio, l’insistenza su un certo tipo di localismo che vediamo oggi a livello progettuale (ma anche turistico), che passa spesso attraverso la romanticizzazione e la produzione di un’idea ‘pittoresca’ di piccoli paesi e realtà rurali, per me non è una risposta al capitalismo – ma anzi, è esattamente un suo prodotto. In questo senso, credo che Pater abbia fatto del suo meglio per dimostrare l’esistenza di realtà che lui ritiene lavorino contro un sistema economico e sociale dominante come quello neoliberale. Credo però che la parte del suo libro dedicata alle pratiche sia un po’ controversa, perché sembra funzionare come un’appendice del testo, una sorta di riflessione ‘extra’ ma forse priva della contestualizzazione necessaria a evidenziare i limiti dei casi studio che riporta.

NB: C’è un’ultima questione che vorrei affrontare insieme oggi, rispetto all’utilizzo del linguaggio nel libro di Pater e, più in generale, nel mondo dell’editoria legata alla progettazione. Avvicinandosi al mondo della letteratura di design, è impossibile non notare la vasta quantità di libri scritti sotto forma di guida, soprattutto nell’ultimo decennio16. E sebbene gli intenti di questi libri siano radicalmente diversi (alcuni, come il caso di Bierut, sono dei portfolio, altri libri divulgativi e altri ancora, come il libro di Pater, ricerche di ordine critico-storico), è impossibile non notare, nell’ambito della scrittura di design, una sorta di feticismo nell’uso del manuale come strumento per il racconto. Ciò, però, può portare a un certo tipo di determinismo nelle idee espresse, che sembrano essere dei circuiti chiusi (individuo un problema → elenco le soluzioni) piuttosto che degli spunti per un’apertura a un dialogo condivisibile e che, soprattutto, possa essere la base per futuri ragionamenti o sviluppo di teorie. Nel capitolo “The Designer as Entrepreneur”, Pater spiega in modo molto critico come questo modello di scrittura sia una modalità di vendere il proprio lavoro in maniera ‘autoriale’, e tuttavia lui stesso utilizza lo stesso identico stratagemma – oltre ad aver già pubblicato un libro che a sua volta nel sottotitolo è definito come un ‘manuale di design (non proprio) globale per la comunicazione visiva’17.

Secondo te, perché il manuale o la guida persistono come modello narrativo nella produzione letteraria della progettazione (in particolare quella del design)? Quali sono i punti di forza e quelli di debolezza di questi strumenti?

SL: La domanda può essere utile per capire cosa ci si aspetta al giorno d’oggi da un libro di design. Per me questo è un tema fondamentale, perché vivendo da vicino il mondo dell’editoria – sia attraverso le mie pubblicazioni, sia nel lavoro che svolgo come editor – noto una certa retorica relativa alla necessità della cosiddetta pars construens. Secondo questa vulgata, un libro privo di soluzioni o vie d’uscita sarebbe un libro incompleto, monco. Nel caso di Pater, per esempio, quella di inserire dei casi studio è stata una buona idea, che però al tempo stesso risponde anche a un’esigenza di tipo editoriale – magari inconscia. Nello specifico, mi sembra che ci sia una richiesta sempre forte di soluzioni e un certo sospetto nei confronti della critica. Io la trovo una follia. Innanzitutto, ritengo che pensare che la critica di per sé non sia generativa e che un caso studio sia più ‘reale’ di un’analisi sia profondamente sbagliato. E di solito un approccio del genere finisce per dare vita a una tipologia di libri in cui ci sono interi capitoli di critica o di analisi e poi, verso la fine, come happy end, alcune paginette di linee guida, in genere debolucce, dovute al fatto che l’autore o l’autrice si sentono vittime di questa esigenza editoriale. Per tornare a Pater, so che una certa parte del pubblico è rimasta delusa da un sottotitolo che promette troppo: “How to escape from it [capitalism]”. Bisogna tuttavia considerare che i titoli e i sottotitoli vanno presi per quello che sono, ovvero degli strumenti che servono ad aprire dibattiti ma anche, chiaramente, a vendere. Pretendere che un libro di quattrocento pagine pieno di illustrazioni possa offrire la soluzione a un problema secolare è un po’ ingenuo.

Fatta questa premessa, c’è comunque da dire che l’approccio ‘manualistico’ è proprio del campo del design, in quanto complesso di pratiche processuali intrinsecamente ottimiste. Ciò che manca davvero al giorno d’oggi nella letteratura di design sono dei testi che si collochino definitivamente al di fuori dell’ottimismo progettuale. A questo proposito vorrei citare una persona dalla quale il design ha imparato molto e da cui ha ancora molto da imparare: Salvatore Iaconesi, scomparso quest’anno18, che assieme a Oriana Persico formava Art is Open Source19. Iaconesi è stato un designer, un hacker, un teorico, e ha insistito molto sulla questione della tragedia all’interno delle pratiche progettuali. Ciò di cui il mondo del design difetta, il suo grande non detto, è il tragico. Non c’è nulla di fondamentalmente tragico nel libro di Pater. È chiaro che vengono toccati temi come lo sfruttamento o la precarietà, che sono drammatici, però il dramma è presentato, come di consueto, attraverso una modalità un po’ astratta e a tratti statistica o, al contrario, quasi spettacolare. C’è una distanza, insomma. Manca del tutto la tragedia vissuta che deriva dalla miseria del quotidiano. Questo, secondo me, non è stato ancora raccontato a sufficienza. Ovviamente non lo chiediamo a Pater, ma lo chiediamo ai futuri autori e alle future autrici di libri di design. Non si può formulare un ‘how to’ per affrontare il tragico, non si può fare della tragedia una serie di ‘best practices’, perché la tragedia non è un problema, bensì un dilemma. Come agisce un libro nel mondo? “L’unico modo di uscire dalla tragedia è il cambiamento di stato”, scriveva Iaconesi20. Un libro agisce davvero quando è in grado di trasformare il soggetto, e si può trasformare un soggetto anche con il libro meno costruttivo al mondo – penso ad autori come Emil Cioran o Albert Caraco. Ecco dunque il vuoto da colmare nel campo del design: non siamo mai stati davvero pessimisti.


Silvio Lorusso è un artista e scrittore italiano di base a Rotterdam. Autore del libro Entreprecariat (Krisis Publishing, 2018), il suo lavoro è stato presentato a livello internazionale presso istituzioni ed eventi tra i quali The Photographers’ Gallery (Londra), Yale School of Art (New Haven), Transmediale (Berlino) e Kunsthalle Wien (Vienna).

Noemi Biasetton è progettista e ricercatrice. Conclusi gli studi presso l’Unibz in Design e Arti, ha ottenuto un master in Information Design presso la Design Academy di Eindhoven e un dottorato in Scienze del Design presso l’Università IUAV di Venezia. La sua ricerca esplora il ruolo delle pratiche progettuali in relazione al discorso politico.

BookCloud è un progetto di bruno e curato da Noemi Biasetton nell’ambito della programmazione di BookBiennale (bookbiennale.org).


1Julier, G. (2017). Economies of Design. SAGE Publications.

2“Broadly speaking, design works in two ways in relation to neoliberalism. First, it makes stuff

that is used within its systems. Products are fashioned for sale, environments are configured for use, images are formed for viewing, services are designed and rolled out and so on. […] Second, design also plays a more symbolic role. As a thing that is intended to be at the leading-edge of cultural production, it points towards the possible. It shows what it is in potentia. It materializes the probable. Design plays a semiotic role in making change appear reasonable” (Julier, 2017, p. 3).

3(Julier, 2017, p. 2).

4Wizinsky, M. (2022). Design after Capitalism: Transforming Design Today for an Equitable Tomorrow. MIT Press.

5 “Design organizations can pivot to play more of a social function, by organizing designers locally, discussing issues in the field in collective ways, and by collective lobbying or bargaining” (Pater, 2021, p. 336).

6 L’Alliance Graphique Internationale (AGI) è un’associazione elitaria internazionale nata a Parigi nel 1951 con l’obiettivo di rappresentare i migliori grafici in tutto il mondo e promuovere la cultura del graphic design attraverso conferenze, pubblicazioni e attività educative.

7Art Workers Italia (AWI) è un’associazione autonoma e apartitica, nata con l’obiettivo di dare voce ai lavoratori dell’arte contemporanea in Italia. AWI collabora con esperti del settore legale, fiscale e amministrativo, con istituti di ricerca e università, con istituzioni artistiche e culturali, per costruire strumenti etici, contrattuali e legali a tutela dei lavoratori dell’arte.

8Tra i capi della collezione Primavera/Estate 2016 del marchio francese Vetements, sotto la guida del direttore creativo georgiano Demna Gvasalia, è apparsa una maglietta a tinta unita gialla con la stampa del logo di DHL, l’azienda internazionale di trasporto merci che appartiene a Deutsche Post. La manipolazione dei loghi aziendali e delle uniformi da lavoro è da sempre al centro dei metodi di Vetements, che spesso utilizza le proprie collezioni come strumenti di critica alla decadenza sociale del tardo capitalismo. Con una giusta dose di sarcasmo, i progetti di Demna puntano il dito liberamente contro i dirigenti aziendali e i banchieri, contro la polizia, contro la condizione angosciante vissuta dai millennials, e contro la marea di sprechi causati dall’implacabile sovrapproduzione dell’industria della moda guidata dal profitto.

9“A design education that wants to produce creative and critical thinkers should start by listening to the needs of people, rather than the needs of industry” (Pater, 2021, pp. 362–363).

10La teoria dell’intersezionalità, proposta nel 1989 dall’attivista e giurista statunitense Kimberlé Crenshaw, esamina come varie categorie (quali il genere, l’etnia, la classe sociale, la disabilità, l’orientamento sessuale, la religione, l’età, la nazionalità ecc.) interagiscano su molteplici livelli, talvolta simultanei, e concorrano alla formazione di diverse forme di discriminazioni, oppressioni, o dominazioni. La teoria sostiene che sia necessario pensare a ogni elemento o tratto di una persona come inestricabilmente unito a tutti gli altri elementi per poter comprendere in che modo l’ingiustizia sistematica e la disuguaglianza sociale avvengono per ciascun individuo.

11Lorusso, S. (2022, June 20). Expectations as Reality. The New Design Congress.

12Elzenbaumer, B. (2014). Designing Economic Cultures: Cultivating Socially and Politically Engaged Design Practices Against Procedures of Precarisation [Doctoral Thesis, Goldsmiths College, University of London].

13 Vedi Bookcloud | Ep. 01.

14 Brave New Alps, nato nel 2005 dalla collaborazione tra Bianca Elzenbaumer e Fabio Franz, produce progetti di design che coinvolgono le persone nel discutere e ripensare temi sociali, politici e ambientali. Per maggiori informazioni: www.brave-new-alps.com.

15 L’espressione ‘classe creativa’ si riferisce al noto libro The Rise of the Creative Class (2002) dello studioso statunitense di studi urbani Richard Florida, che ha segnato a lungo il dibattito sulle trasformazioni sociali della società occidentale.

16 Solo per citarne alcuni: How to Be a Graphic Designer, Without Losing Your Soul (Shaughnessy, 2005), How to Think Like a Great Graphic Designer (Millman, 2007), How to Use Graphic Design to Sell Things, Explain Things, Make Things Look Better, Make People Laugh, Make People Cry, and (Every Once in a While) Change the World (Bierut, 2015), Don’t Get a Job… Make a Job: How to Make It as a Creative Graduate (Barton, 2016), Resist! How to Be an Activist in the Age of Defiance (Segalov, 2018).

17 Pater, R. (2016). The Politics of Design: A (Not So) Global Design Manual for Visual Communication. BIS Publishing.

18 Quando nel 2012 Salvatore Iaconesi si è ammalato di cancro al cervello ha deciso di lasciare l’ospedale per avviare La Cura, una performance globale per riappropriarsi del proprio corpo e della propria identità creando una cura partecipativa open source per il cancro. Iaconesi è scomparso il 18 luglio 2022, a 49 anni, a causa della malattia. Per maggiori info: www.la-cura.it.

19AOS (Art is Open Source) è un laboratorio di ricerca interdisciplinare formato da Salvatore Iaconesi Oriana Persico, e incentrato sulla fusione di pratiche artistiche e scientifiche per comprendere meglio la mutazione degli esseri umani e delle loro società con l’avvento delle tecnologie digitali.

20 Iaconesi, S. (2020, October 26). Un Nuovo Abitare, dopo il COVID. Medium.