Articolo scritto per la mostra “Stefano Tamburini, Accelerazione” a cura di Matteo Binci e Valerio Mattioli. La mostra si è tenuta al Macro, Museo d’Arte Contemporanea di Roma tra il 21 marzo e il 25 agosto 2024. Foto di Agnese Bedini.
Grafico, artista, art director, musicista… insomma multi-hyphenate ante litteram, Stefano Tamburini usava la parola accelerazione per definire la sua poetica del ‘coatto sintetico’, ovvero Ranxerox, protagonista dell’omonimo fumetto. Accelerare significava fare uso di qualsiasi materiale, mezzo o tecnica a disposizione senza alcun timore reverenziale o spregio snobistico, passando dalle forbici seghettate alle fotocopiatrici, ricorrendo al dripping così come al collage, citando Picabia, Warhol, Rotella. Tuffarsi con gelida intensità nella semiosfera, scrutare il paesaggio delle merci e, soprattutto, profanare le cattedrali della cultura, che forse è la maniera più onesta di rapportarsi ai “maestri”: così László Moholy-Nagy, autore di Vision in Motion, diventa in un appunto “Mongoholy-Nagy” (un riferimento ai Devo?).
Il “dinamismo esagitato” dell’ideatore di Cannibale e Frigidaire – così lo definisce Michele Mordente – è una corsa verso l’incidente libidinoso. Anzi, una fuga: le sue pratiche cannibalesche sono rincorse da quelle, sempre più veloci, di un apparato semiopoietico che, informatizzandosi, comincia a nutrirsi di se stesso in tempi disumanamente brevi. L’intensità che Tamburini contrappone alla macchina autosemiofaga è pulsione di morte: ha lo sguardo disperato del Saturno di Goya che divora suo figlio, una disperazione che deriva dal presagio del sorpasso.
Oggi, a sorpasso avvenuto, non è difficile imbattersi in una parodia di quel dipinto in stile Corporate Memphis, ovvero la retorica visiva – infantilistica e upbeat – della Big Tech californiana, ritorno doppiamente ironico del postmoderno spensierato alla Mendini, di cui lo stile affilato di Tamburini incarna l’oscuro doppio.
Il processo ricombinatorio avviato dalle neoavanguardie e portato avanti prima dallo sciame internettiano con meme e fan art, e poi da esperti di branding e social media manager con facili sovversioni, è oggi accelerato dall’intelligenza artificiale generativa. Servizi come Dall-e e Midjourney permettono di evocare immagini manipolando l’universo segnico attraverso il mezzo privilegiato della rete: la scrittura. In questo modo l’immaginario, ridotto a dataset, viene ingerito, processato e dunque espulso per subire ulteriori rimasticazioni. Si tratta del cosiddetto model collapse: fenomeno per cui l’intelligenza artificiale comincia ad apprendere dagli artefatti che essa stessa ha generato. Saturno non è mai sazio.
Nell’ipercollage che ne deriva non si giustappongono più soltanto brandelli di figure, bensì stili, correnti, tecniche e riferimenti culturali. Evoluzioni minime si susseguono nei cicli di retroazione che legano macchina e utente, simili, nella loro coazione a ripetere, a Ranxerox, fotocopiatrice trasformata in cyborg, e Lubna, la sua adorata giovane tossicodipendente. Così, da tattica controculturale, il plagiarismo si è fatto processo egemone e automatico.
Le parole di Red Vinyle riecheggiano allora inquietanti: “tutto è stato già detto, l’importante è avere un pubblico che non lo ricordi”. Eppure l’attuale turboaccelerazione pare priva d’intensità: il gelo acuminato di Frigidaire brucia ancora, mentre miliardi di immagini sintetiche ci lasciano indifferenti, indispettiti.