Arianna Caserta: Il termine “Sloptimism” si riferisce non solo all’accettazione sempre più spensierata dell’estetica dello Slop (e quindi dell’ultra-ottimizzazione, della patinatura e dell’appiattimento) in ogni aspetto della società, ma anche all’abbraccio tra mondi come quelli dell’arte, della cultura e della politica e le regole sporche del mercato dell’attenzione a colpi di clickbait, comunicazione stile content creator e corporativizzazione estrema. Se dovessi scegliere alcune immagini per descriverlo, sarebbero: Il video recentemente pubblicato da Macron su X, Mark Zuckerberg che reagisce allo slop AI su Facebook, la copertina dell’album Songs For A Nervous Planet dei Tears for Fears, questo format virale di TikTok che aiuta a catturare l’attenzione in 0.2 secondi, come da regola della piattaforma. In che modo vedi lo “Sloptimism” riflettersi nel mondo della critica d’arte e del design?
Silvio Lorusso: Considerando il termine “Sloptimism”, si tende a focalizzarsi tanto sullo slop e poco sull’ottimismo. Invece è proprio quest’ultimo aspetto che mi interessa di più. Detta in altre parole, la “melassa” contiene un nucleo ideologico secondo cui l’intelligenza artificiale rappresenterebbe una tecnologia rivoluzionaria. A questo ottimismo, che è quello di Sam Altman così come della casa d’aste Christie’s, e che dunque pervade politica, arte e cultura, si oppongono gli apocalittici, i quali a torto o a ragione criticano l’AI in tutti i modi possibili, il più delle volte, però, focalizzandosi su questioni irrilevanti e snobistiche, come il cattivo gusto delle immagini prodotte o la loro falsità. Tuttavia, così facendo sono anch’essi inghiottiti dalla melassa, prima che questa si cristallizzi come l’ambra di Jurassic Park. Sono pochissimi gli artisti e intellettuali in grado di riconoscere il piano “pess-ottimista” contenuto nello slop e dunque di allontanarsene. Le immagini slop saranno anche kitsch, oleografiche, patinate… ma come sostiene Rob Horning, la “verità” di un’immagine sta nell’uso, e si possono dire e fare cose intelligenti anche a partire dal gattino più cute o dall’abbraccio di Gesù più melodrammatico (vedi a tal proposito il mirabolante Instagram cristiano). Invece si continua a difendere una specie di autonomia estetica basata sull’eccellenza critica o pittorica, ottenendo così un risultato magrissimo: preservare il fragile ego dell’artista, critico o curatore di turno.
AC: Credo ci siano diversi paradigmi estetici emersi come conseguenza della corporativizzazione della vita online e dei contenuti generati dall’intelligenza artificiale. Penso che si muova su diversi fronti: la long form generative art e la crypto art; l’estetica dell’arte generativa immersiva stile Refik Anadol e “The Sphere”; e una certa corrente, invece, molto più interessante e in minoranza, di esperienze artistiche influenzate dall’estetica corporate ma critiche della stessa (Constant Dullaart che citi nel tuo saggio sul Normie Weird, ma opere figurative come questa e questa). Quest’ultima tendenza, soprattutto nelle declinazioni figurative che riprendono la forma di banner e pubblicità online, sono particolarmente interessanti nel loro riprendere il testo del linguaggio clickbait degli adv e l’aspetto dei terribili pop-up che avresti trovato sull’internet di 10 anni fa. In un mondo in cui le aziende cercano di sembrare persone (fioccano parole come “realness” e “authenticity”), non mi stupisce pensare che questi artisti siano affascinati dall’estetica dei fastidiosi banner pubblicitari perché, almeno, erano chiari nel loro fastidioso intento commerciale, e non si nascondevano subdolamente tra i consigli del tuo YouTuber preferito o tra le tue ricerche di Google. Che quadro osservi quando pensi all’equilibrio tra persone che celebrano l’invasione delle AI definendola salvifica e necessaria, e le persone che cercano di scappare nella direzione opposta?
SL: È un po’ quello che dicevo sopra: bisogna proprio trascendere il piano del discorso. Per quanto provi affetto e simpatia per l’arte critica (vengo anch’io da quel mondo), trovo che anch’essa sia, per così dire, omeopatica e dunque giochi il gioco delle corporate. Questa è la ragione del mio disamoramento per l’arte che “getta luce”, “apre la scatola nera”, ecc, ovvero per quella che Andrew Norman Wilson chiama “l’industria a cottimo dell’arte critica”. Mi pare una pedina ininfluente in un oceanico gioco delle parti. Ovviamente mal sopporto l’arte a vantaggio della grandeur tecnica ma ormai non sono più nemmeno in sintonia con le pratiche intellettualistiche e politicamente denunciatarie. Provo invece un sincero entusiasmo verso l’arte che tiene ambiguamente il polso del presente, magari già rivolgendo lo sguardo al passato (l’opera di Dullaart è un buon esempio). Mi fanno impazzire inoltre tutte le espressioni di vernacolo digitale, essendo fedele all’idea di John Dewey per cui “le arti che oggi hanno maggiore vitalità per il pubblico medio sono cose che esso non prende per arte.”
AC: Mi piace molto il tuo parallelismo tra la noia data dalle immagini create dall’AI e quella creata dalle stock images, ma vorrei evidenziare qualcosa di molto interessante che vedo succedere: a confronto con lo slop, le immagini stock sono diventate Weirdo Weird, e mi sembra che oggi il visual trend sia proprio quello di imitarle con una certa ironia mescolata a nostalgia. Ancora una volta, un ritorno a un immaginario estetico dichiaratamente corporate e impersonale, che esprime il suo esasperato obiettivo di vendere, senza mistificazioni. Il ricordo di un tempo in cui distinguere cosa provenisse da un’azienda e cosa no era ancora possibile. Rispetto a questo, mi hanno colpito molto le campagne pubblicitarie di un concerto di una celebrità pop spagnola e quella del nuovo film di Soderbergh. Abituati all’AI slop che si insinua nei nostri spazi personali, quasi siamo nostalgici di ciò che prima ci sembrava estremamente corporativo, ma almeno umano. Siamo forse destinati, per tutta la nostra esistenza in quanto specie umana, a essere nostalgici nei confronti della precedente era del capitalismo?
SL: In Entreprecariat ho scritto qualcosa di simile a proposito della “nostalgia d’ufficio”, un luogo che per quanto noioso e apparentemente asettico fornisce una chiara coordinata storica ed emotiva persino a chi non ci ha mai messo piede (vedi Severance). Mi piacciono questi ribaltamenti ironici perché credo che l’unica autenticità oggi possibile nell’ambito mediatizzato della città e dei social sia quella dell’autopromozione, della pubblicità e del branding. La sincerità, il pianto, la fragilità esposta… tutto ciò che si presenta insomma come #nofilter è invece osceno.
AC: Il rischio che si avverte – quello, appunto, dello “Sloptimism” – è che tutto avvenga velocemente e senza che ci sia spazio per il pensiero critico. Il video di Macron, le immagini generate da AI che inondano il web, Trump e Musk che danno vita al “department of government efficiency” (DOGE). Quella che tu spieghi come una ridefinizione del weird (“because weird has become so normal that its very absence feels weird”) per quanto riguarda l’arte figurativa, è lo stesso fenomeno che Adam Curtis chiamava “Hyper-Normalization”: questo stato di stranezza che non stranisce è di quanto più comodo possa esserci per le persone al potere che mirano a persuadere il popolo a colpi di post-verità e cancellazione della storia. Mi piacerebbe se condividessi le tue idee sul ruolo della cultura visuale in questo contesto.
SL: Devo confessare che rispetto a questo punto mi sento piuttosto atterrito. Oserei dire – un po’ per scherzo e un po’ no – che il mondo tecnico che ora abitiamo abbia ucciso la cultura visuale, relativizzandola. L’idea che si possa trasferire lo stile di Van Gogh è chiaramente una menzogna ma il trucco funziona abbastanza bene da avere conseguenze reali inaudite. Come dichiarano Holly Herndon e Mat Dryhurst, tra i migliori intellettuali e al tempo stesso artisti che lavorano con l’AI, “all media is training data”. Ogni dipinto, video o canzone è ormai, per dirla con Farocki e Parikka, “immagine operazionale”, materia prima informatica, dato. È questo il vero weird: la stranezza non è visuale ma processuale. Gli artefatti sono solo il miele prodotto da questo enorme insetto in grado di digerire tutto.