[Articolo pubblicato su Menelique 04: Design.]
Il designer con tutto il suo carico di velleità, e forse di impotenza, deve […] cercare di muoversi negli stretti spazi che ha a disposizione, di batter l’unica strada che gli è praticabile, quella della «sfida», della «provocazione», chiamando in causa la diretta complicità del pubblico. (Enzo Mari parafrasato da G. Manzini su Paese Sera, 1974)
Un habitué del Salone del Mobile rimarrebbe probabilmente sorpreso nel visitare la Design Week di Eindhoven o la mostra di fine anno del Royal College of Art di Londra. Il nostro ipotetico avventore, un po’ turbato, si domanderebbe: dove sono i progetti, i prodotti e i servizi? Che fine hanno fatto le cose che si usano? Al loro posto: installazioni, performance, workshop. E ancora: occhiali VR, proiezioni e un sacco di schermi al plasma. I pochi oggetti presenti risulterebbero strambi, la loro funzione impenetrabile.
Una volta terminata la visita, un dubbio lo assalirebbe: quello di essere finito per sbaglio nel reparto di arte contemporanea. A quel punto ammetterà, forse, di essersi sentito un po’ come Alberto Sordi alla Biennale. Chiedendo allora delucidazioni scoprirebbe che, da un certo momento in poi, il design – specialmente quello prodotto nelle scuole, presentato nei musei e discusso nelle riviste – ha fatto una specie di zoom out. Piuttosto che limitarsi alla risoluzione di problemi specifici, il design ha deciso di allargare il proprio campo visivo concentrandosi sulla riformulazione di questi stessi problemi in chiave sociale, politica, economica e persino evoluzionistica ed esistenziale.
Alcuni designer “hanno preferito di no”. Abdicando a un ruolo tutto sommato ristretto, un folto gruppo di progettisti, influente seppur minoritario, ha rimesso in discussione praticamente tutto: le ragioni della propria attività, le motivazioni della committenza e il rapporto con essa, le dinamiche produttive, distributive e decisionali, l’impatto dei prodotti e dei servizi e, in ultima istanza, la validità del design stesso come settore economico. Non è solo una questione di scala: d’ora in poi i problemi che occuperanno le menti dei designer non saranno semplicemente grandi, bensì complessi e “perfidi” (wicked nella definizione del teorico del design tedesco Horst Rittel): refrattari a una enunciazione definitiva e perciò impossibili da risolvere una volta per tutte.
Un libro intero non basterebbe a contenere le innumerevoli forme che questo zoom out disciplinare assume. Ecco allora una rapida panoramica, focalizzata sulla storia recente e basata sulla presa discorsiva che alcune correnti hanno ottenuto o stanno ottenendo. Innanzitutto, il manifesto First Things First, pubblicato dal grafico Ken Garland nel 1964, in cui si disconoscono le “banali finalità” della pubblicità che frustrano il talento e l’immaginazione dei progettisti. Dunque, il design radicale degli anni ’60 e ’70 con la sua critica, spesso eccentrica, alla fredda ragione utilitaria. L’attività di Victor Papanek, autore di Design for the Real World (1971), e la sua invettiva di stampo autonomista e libertario – in una parola, illichana – all’imperialismo economico e culturale degli Stati Uniti. Il social design, etichetta piuttosto generica il cui scopo è di rimettere al centro l’etica e la responsabilità. Il design critico e speculativo di Anthony Dunne & Fiona Raby (non a caso influenzati dal radicale Andrea Branzi), dello studio Superflux e del Near Future Laboratory che, a partire dagli anni 2000, riflette sui limiti e le aporie del presente attraverso l’impiego di ipotetici scenari futuri. Dunque, la critica al design critico nel suo complesso, considerato una specie di versione “sci-fi” di un progetto eurocentrico costellato di bias culturali. Il design come ricerca formalizzato nel manifesto Research and Destroy (2006) di Daniel van der Velden, co-fondatore dello studio olandese Metahaven. E ancora, più di recente, un crescente rifiuto delle logiche patriarcali e coloniali insite nella disciplina. A queste si collega il concetto di design justice, recentemente teorizzato dall’accademica Sasha Costanza-Chock nel suo libro eponimo (2020); qui troviamo il motto «niente per noi senza di noi», già presente nel lavoro di Papanek, che mira a includere le comunità per cui si progetta nel processo di progettazione.
E in Italia? È possibile rintracciare una forte spinta etica, politica e critica fin dal secondo dopoguerra, basti pensare all’antifascismo dei designer Germano Facetti e Albe Steiner, o alla rivista Domus, il cui programma postbellico consisteva, secondo Ernesto Nathan Rogers, nel “formare un gusto, una tecnica e una morale, come termini di una stessa funzione. Si tratta di costruire una società.” Nel 1989 un comitato di redazione formato da Giovanni Anceschi , Giovanni Baule e Gianfranco Torri stila la Carta del progetto grafico («Nei confronti dell’inquinamento prodotto da una comunicativa pletorica e da una complementare indifferenza per la cultura dell’immagine […] noi sottolineiamo le nuove responsabilità del progettista grafico.») Più di dieci anni dopo nasce SocialDesignZine, un blog e rivista dedicata proprio a definire il social design. Nel 2011 si forma il Cantiere per pratiche non affermative, guidato dal duo Brave New Alps, il cui lavoro culmina in un’ampia indagine sulla condizione lavorativa dei designer in italia: la Designers’ Inquiry. Per il resto, pratiche critiche simili a quelle precedentemente descritte maturano a stento nel panorama italiano, poiché non sono supportate da fondi statali, come avviene ad esempio in Olanda.
Senza voler fare di tutta l’erba un fascio, è possibile individuare un aspetto comune a queste varie istanze locali e internazionali? Proviamoci. Esse sono mosse da una presa di coscienza che, quando non si trincera nell’antagonismo, tende a produrre una mira espansionistica: il design, che si scopre sottosistema, auspica a cambiare il sistema che lo determina. Come? Diventando metasistema. Si tratta, ad esempio, del proposito esplicito della grafica di pubblica utilità, con la sua agognata alleanza statale. I wicked problem si estendono a dismisura e con essi l’orizzonte abbracciato dallo sguardo del designer. Ci si accorge che il progetto è guidato dalle perverse logiche del capitale? Bisognerà allora riprogettare tali logiche. Si potrebbe dire che da più di mezzo secolo è in corso una lotta per guadagnare terreno disciplinare. L’ambito di competenza del design non riguarda più soltanto la bontà di una soluzione a un dato problema bensì la bontà della dinamica che genera tale problema (che contiene a sua volta infinite altre dinamiche). Il designer – che si autodefinisce di volta in volta mediatore, facilitatore, “sintetista” – aspira dunque a una posizione connettiva e avvolgente, di regia, per usare l’espressione di Giovanni Anceschi, autore tra le altre cose del design della rivista Potere operaio. Come chiamare questa aspirazione? Design urcritico, svincolato, autonomista… Lasciando stare le etichette, già fin troppo inflazionate, risulta almeno un po’ più chiara la ragione per cui nelle mostre di design troviamo sempre meno prodotti e sempre più manifesti programmatici, riflessioni, videosaggi e prototipi: il design vuole sviscerare problematiche, piuttosto che offrire soluzioni impacchettate.
Esiste tuttavia uno scarto tra volontà e realtà, uno scarto che riguarda le condizioni in cui emerge la presa di coscienza del design. Senza negarne l’autenticità, è utile indicare alcuni fattori esogeni che la condizionano e la stimolano. Il primo fattore è di tipo posizionale. Tradizionalmente, il design si propone di cambiare il mondo attraverso le cose che progetta: prodotti, servizi, sistemi, ambienti, strumenti, macchine. Purtroppo, però, è sempre più difficile tener fede a questo proposito. Le strutture di produzione, distribuzione e consumo, pur essendo in continuo cambiamento, sono altamente interdipendenti. Ciò vuol dire che un intervento radicale su di esse risulta sempre più improbabile. Ancor più improbabile è che sia un designer a compierlo. Se persino gli amministratori delegati sono ostaggio di business model irriformabili, cosa può un designer? Se persino un Product Design Leader di Facebook è un piccolo ingranaggio nella macchina del social media, cosa può il designer artigiano attivo nelle periferie dell’impero? Recentemente, John Maeda, design-star che ha popolarizzato il concetto di azienda design-led, ha dichiarato: «In realtà, il design non è così importante.» Gli fa eco Don Norman, peso massimo dello user-centered design, con la seguente precisazione: «La tesi di Papanek secondo cui “ci sono professioni più dannose del design industriale, ma sono poche” è benintenzionata ma errata: egli dà troppo credito ai designer che sono generalmente posizionati troppo in basso nella struttura di potere per contare qualcosa». Si tratta, comunque, di voci fuori dal coro. Il coro, dal canto suo, continua a intonare il ritornello «da un grande potere derivano grandi responsabilità». Rivendicando a squarciagola il ruolo del design si copre quella vocina interiore che ne ammette il ridimensionamento. Come far fronte a un’irrilevanza parziale ma sempre più evidente? Attraverso un apparato discorsivo che orgogliosamente contribuisce a celarla.
Il secondo fattore riguarda il deskilling, ossia la relativa riduzione di competenze specifiche e la percezione pubblica che ne consegue. In tal senso, il caso del graphic design è emblematico: generalmente, il grafico è considerato una specie di tecnico con una certa padronanza dei programmi di desktop publishing. Tant’è vero che c’è chi si sorprende che esistano corsi di laurea in graphic design. Il fatto che questa percezione sia distorta è del tutto indifferente. Ciò che conta è che essa determina il valore sociale del designer come figura professionale, e in certa misura anche il suo compenso. Come è accaduto per il settore terziario nel suo complesso, alcune competenze – addirittura alcuni mestieri – sono state incorporate nei software di uso generale. La suite Adobe ha oggettivato parte del know-how progettuale e democratizzato il suo capitale fisso sapienziale. A fronte di questo deskilling percepito, come può reagire il design? Sostituendo una competenza specifica – tecnica, se vogliamo – non più spendibile, con una competenza allargata, principalmente umanistica. Parafrasando il teorico del design Tomás Maldonado, il designer è sempre più intellettuale e sempre meno tecnico. Purtroppo, però, la competenza umanistica si rivela poco spendibile: chi comprerà i prodotti culturali del designer critico?
E qui interviene il terzo fattore. Il maggiore acquirente dei prodotti culturali del design è il complesso evento-museale: festival, mostre, gallerie, fiere di settore, biennali, ecc. Basta guardare le ultime Notti degli Oscar per rendersi conto della qualità spettacolare dei proclami critici ed etici. La passione politica e l’urgenza radicale costituiscono il perfetto ornamento contenutistico dei grande eventi dedicati al design. Possedendo visibilità, il complesso evento-museale influenza l’apparato discorsivo intorno alla disciplina: è nei musei e nelle biennali che ci si fa un’idea della natura di questa entità proteiforme che chiamiamo design. Se in tali sedi si insiste sulla dimensione critica, politica ed etica del design, ci si convincerà che il designer è innanzitutto politico, critico, ed etico. Ma soprattutto, si considererà il design sempre più un’attività discorsiva che avviene in pubblico, e sempre meno un mestiere svolto semi-privatamente che raggiunge il pubblico tramite artefatti.
Strettamente legata al complesso evento-museale è l’industria della formazione, che include istituzioni pubbliche e scuole private. Ed è proprio la formazione il quarto fattore che stimola lo sviluppo di istanze autonomiste. Nelle scuole è forte la spinta multidisciplinare: allargare i confini del design è all’ordine del giorno da decenni. In più, le scuole, pressate dall’ideologia dell’innovazione, si ritrovano ad abbandonare i loro saperi accumulati. Tra i vari esiti di questo fenomeno si può rilevare una profonda segmentazione degli interessi sostanziali affrontati dai designer e dei metodi impiegati per affrontarli. Nessun aspetto della pratica rimane costante. I problemi di campo fanno largo ai coinvolgimenti individuali. La scuola diventa spazio di espressione, in maniera non dissimile dalle scuole d’arte o di scrittura creativa. Un fenomeno che potremmo definire autodesign, dato che, come l’autofiction, fa della biografia e delle istanze individuali il proprio prodotto culturale. La cultura di un certa istituzione è costituita sempre meno da un bagaglio di saperi specifici e sempre più da una vaga attitudine condivisa, un’attitudine spesso definita da istanze critiche e politiche. Istanze che però, da sole, non sembrano garantire la legittimazione professionale dei futuri designer.
Un’antica schermaglia tra noti designer italiani ci permette di inquadrare meglio questo problema di legittimazione. Nel suo classico Artista e designer (1966) Munari afferma: «Il sogno dell’artista è comunque quello di arrivare al Museo, mentre il sogno del designer è quello di arrivare ai mercati rionali». Munari mette così a confronto due modi di fare cultura. Diversi anni dopo, sulle pagine delle Arti (1975), il designer Silvio Coppola precisa freddamente:
il sogno del design è quello di arrivare nelle raccolte pubbliche (musei), oppure sui cataloghi delle mostre, oppure sulla pagine delle pubblicazioni di categoria, oppure, in mancanza d’altro, per caso, negli allestimenti sceneggiati di qualche servizio d’arredamento dei settimanali femminili.
Insomma, va bene l’elogio del mercato rionale (così come vanno bene l’urgenza politica e lo sforzo critico) purché venga riconosciuto nelle cattedrali della cultura, o quantomeno in quelle del consumo. È importante che il designer sia considerato un competente che progetta per il mercato rionale; e non che ci finisca a lavorare. Coppola profetizza dunque gli effetti dell’apologia munariana: «Resta il fatto che tu hai riesumato il mercato rionale e d’ora in avanti, qualche Esteta Illuminato, di quelli che tirano fuori il social-design o il popular-design o il mega-naval-design, e chi ne ha più ne metta […] avrà una griglia critica in più e potrà chiederci: “Scusi Lei, signor Designer Famoso, è mai stato alla Bovisa nel mercato del giovedì?”». L’idealizzazione del mercato rionale fornisce «il motivo per un attuale “agora design” (che non è il mercato del design, né il mercato degli schiavi — sia pure a caro prezzo — sia bene inteso), ma il vetrino di un esame di coscienza da ultima spiaggia.» Coppola teme che il suo lavoro venga letto tramita una griglia critica o etica imposta da qualcun altro, magari a posteriori. Oggigiorno, in mancanza di una meccanismo adeguato di legittimazione esterna, sono sorte diverse griglie critiche, politiche ed etiche interne al settore. In mancanza di legittimazione, autolegittimazione. Ma questa basta a nascondere un crescente senso di irrilevanza e lenire le frustrazioni di designer disconosciuti che hanno investito parecchi anni nella formazione?
Rispondendo alle cassandre che puntualmente lamentano la fine del design, lo storico Vanni Pasca ha recentemente dichiarato che il design non ha raggiunto una fase terminale, ma si è semplicemente espanso, come l’arte. Si tratta di una tesi convincente ma insufficiente. Nel momento in cui si espande, il design si diluisce: perde sostanza disciplinare e riconoscimento pubblico faticando a riprodursi come campo professionale. Il design diluito si riversa nell’incapacità di fare la differenza, nella competenza diffusa dei software di uso comune, nella spettacolarizzazione della dimensione etica e politica, nel disorientamento formativo delle scuole, nella svalutazione delle lauree in design.
In Radical Choc (2020) Raffaele Alberto Ventura dà un’elegante definizione generale di competenza: la capacità di ridurre l’incertezza. Riuscendo sempre meno a svolgere tale funzione, il design prova a fare della propria incertezza disciplinare, tradotta in impegno politico e sforzo critico, la sua competenza chiave e il suo prodotto di punta.
L’autore ringrazia Michele Galluzzo e Valeria Pugliese per i preziosi commenti.