Tardofuturismo: Il futuro come modo del presente

Hotpot, Essay, ITA, 2025

Saggio commissionato da Parco e pubblicato in tre episodi nella newsletter Hotpot.

Il futuro desertifica / La vita ipotetica / Qui la vista era magnifica / Da oggi significa / Che ciò che siamo stati non saremo più – Baustelle

Design Hustler

Da un po’ di tempo a questa parte sono ricaduto, mio malgrado, nel tunnel di LinkedIn, e non so nemmeno bene perché. La prima volta che mi ci ero avventurato, diversi anni fa, una ragione c’era: capire le dinamiche della piattaforma in relazione al comportamento dei suoi utenti. L’indagine era poi confluita in un capitolo del mio libro Entreprecariat, nel quale sostenevo che LinkedIn fosse il social network par excellence in quanto incarnava nella maniera più schietta e spietata la logica competitiva presente, benché occultata, in tutte le altre reti sociali. All’epoca, però, credevo che i designer non prendessero troppo sul serio “il social dei tuoi genitori” e preferissero altri canali per trovare lavoro e condividere idee.

Mi sbagliavo. Esiste una tipologia di designer con un piede nel mondo della user experience e del service design, e l’altro nell’accademia (tra systems thinking e design speculativo) attivissima sulla piattaforma tramite post della lunghezza e del tenore delle citazioni motivazionali di Instagram. Gente che ha lavorato per Google o IDEO, o che ha lanciato qualche costosissima summer school dedicata al more-than-human design e che ora propone dei rimasticamenti scialbi di idee già logore, idee la cui vitalità è stata risucchiata da innumerevoli manifesti artistico-accademici. Una tra le tante: la friction come qualità positiva delle interazioni, come momento mindful di consapevolezza salvo poi però abbandonarsi a una collera inenarrata quando Gmail non carica per mezzo minuto di orologio. Così si passa dalla potente performance di Luna Maurer Emoticons Don’t Have Wrinkles, efficace in quanto incarna letteralmente l’idea di friction (durante l’intera esecuzione vediamo un tremendo ingigantimento del volto dell’artista dipinto di giallo), a qualche motto banale reso attraverso un pigro template di Canva.

Ma il concetto chiave che sembra unire questo popolo di design hustlerhustler perché la loro attività di self-branding, oltremodo evidente, conferma la tesi precedentemente esposta sull’importanza di LinkedIn – è quello di futuro, anzi futuri, rigorosamente al plurale e rigorosamente preferibili. A corollario di questa nozione c’è la categoria dell’immaginazione, spesso dotata dell’attributo radicale: facoltà da sguinzagliare contro questo benedetto avvenire. Molti design hustler si definiscono infatti futuristi o futurologi, ma io preferisco chiamarli tardofuturisti. Per chiarirne il motivo dovrò dilungarmi parecchio, e perciò chiedo scusa già da ora.

Requiem for a Dream

Innanzitutto una confessione: faccio fatica a prendere sul serio l’intera impalcatura concettuale che sostiene i futuri preferibili e l’immaginazione radicale. Certo, così come vi sono, all’interno di questo sistema di idee, varianti ingenue e semplicistiche, ve ne sono altre più sottili ed elaborate; ma il mio scetticismo investe il suo presupposto fondamentale: la convinzione che il futuro, sia esso concepito come singolare o molteplice, si collochi più avanti sulla linea del tempo; che sia ciò che, in maniera più o meno prevedibile, più o meno sorprendente, più o meno controllata, deve ancora accadere. Purtroppo il futuro non è questo, o meglio non lo è più. Dal mio punto di vista – e non solo dal mio, come mostrerò a breve – oggi il futuro non è altro che un modo di esistenza del presente, uno stile; si tratta, più prosaicamente, di un’idea senescente che si trascina fino a noi.

Non è stato sempre così: negli anni ’50 del novecento il futuro possedeva una concretezza spaziale che stava a garanzia di quella temporale. Era a portata di sguardo: bastava alzare gli occhi al cielo e osservare la Luna. Quel satellite naturale era l’avvenire, e la nostra distanza da esso, misurabile in chilometri, rappresentava anche una distanza temporale. Una volta messo piede sulla Luna, però, il futuro come “mondo a venire” viene a mancare. A dirla tutta, stava già barcollando. Secondo J. G. Ballard, “[l]a fantascienza è sempre partita dal principio che l’ambiente è dinamico, che vi si producevano dei mutamenti, fino al periodo recente. Ora, l’idea del futuro è quasi morta. Nessuno progetta il 1995 nel modo in cui la gente progettava l’avvenire durante gli anni Trenta. Il passato come il futuro sono stati annessi al presente.” Ballard colloca il punto di rottura alla fine della seconda guerra mondiale: “Probabilmente la prima vittima di Hiroshima e Nagasaki fu il concetto di futuro. Penso che il futuro morì in qualche momento negli anni ’50. Forse con l’esplosione della bomba all’idrogeno.” Il punto, tuttavia, non sta tanto nell’identificare la data precisa del decesso, quanto nel decidersi una buona volta a celebrarne i funerali.

Ballard è stato forse il primo a vestirsi a lutto ma certamente non l’unico. Nel 2013 Franco ‘Bifo’ Berardi ha descritto la “lenta cancellazione del futuro”, concetto poi ripreso da Mark Fisher per raccontare la corrosione dell’infrastruttura artistica nel Regno Unito post-Thatcheriano. Nel 2015 David Graeber ha dato voce alla profonda seppur inarticolata delusione della sua generazione rispetto al mancato avverarsi del sogno delle macchine volanti, simbolo di un futuro radioso (futuro che, secondo l’autore, non si è realizzato poiché, da un certo momento in poi, si è investito più nelle tecnologie di disciplinamento che in quelle di visione). Nel suo Nuova Era Oscura (2018), James Bridle ha parlato di fine del futuro in senso ancora più stretto, ovvero come erosione della memoria e della capacità di pensare della specie umana. Nello stesso anno, Peter Lamborn Wilson (meglio conosciuto come Hakim Bey) sosteneva che: “abbiamo finalmente raggiunto il Futuro e […] la verità davvero orribile della Fine del Mondo è che non finisce. In pratica abitiamo un grande centro commerciale alla J. G. Ballard/Philip K. Dick da qui all’eternità. Questo È il futuro: ti sta piacendo? La vita tra le Rovine: non è poi così male per i borghesi, fedeli servitori dell’Un Percento. Rovine dotate di aria condizionata!” E per concludere questa funerea rassegna, nel 2020 McKenzie Wark ha scritto una lettera rivolta al futuro, inteso però come vero e proprio destinatario:

Caro Futuro, non credo più in te. Nessuno ci crede, ma nessuno lo ammette. Sei stato l’ultimo degli dei a morire. O forse: sarai l’ultimo Dio a morire. È difficile azzeccare il tempo verbale. Sei mai esistito o hai cessato di esistere? Ti abbiamo ucciso o sei morto? […] Nessun sacrificio ti farà nascere. Non è così che finisce la storia. Non ci riconcilieremo. L’assoluto non arriva mai. Fotteremo e rideremo e vivremo le nostre piccole vite come meglio potremo.

Ma se il futuro non è più ciò che, come il temibile Baffone, “ha da venire”, bensì un modo del presente, ciò non vuol dire che il pendolo della Storia si sia fermato. È quindi utile fare una distinzione tra il futuro come vecchia idea che aleggia nel presente, e il nuovo, quel magma ribollente che preme sull’oggi, plasmandolo, fino a che non ne ridisegna i tratti, rendendolo irriconoscibile. Il nuovo è dunque ciò che produce una nuova figura, ma per farlo deve sfigurare il presente. Se il futuro è differente, il nuovo è altro. Mentre il futuro parla, il nuovo agisce. Per comprendere meglio questa distinzione, è necessario esaminare come i futures studies concettualizzano il futuro e metterlo a confronto con alcune interpretazioni del concetto di nuovo.

Di coni e matasse

Uno degli strumenti concettuali più diffusi tra i futurologi, e perciò anche tra i tardofuturisti, è il Futures Cone di Joseph Voros del 2003. Tuttavia, come spiega lo stesso Voros, l’idea di rappresentare l’avvenire sotto forma di coni di vario diametro sulla base della maggiore o minore probabilità risale quantomeno al 1994. Di questo diagramma esistono innumerevoli varianti (ci sono addirittura workshop dedicati alla produzione di nuove versioni), ma tutte si inseriscono nella stessa logica probabilistica. Il tempo è qui rappresentato come un fascio di possibilità, che va dal probabile all’assurdo (preposterous). Generalmente questo spettro racchiude anche il sistema di valori proprio del designer, ciò che egli considera preferibile. Tuttavia, dato che non è facile produrre consenso su ciò che si auspica, non sono del tutto chiari il centro e l’ampiezza di questa area di possibilità. Un rivoluzionario, ad esempio, sa bene che ciò che per lui è auspicabile si colloca molto più vicino alla zona del preposterous (se non addirittura oltre) che a quella del probabile.

Ma non dobbiamo cedere alla tentazione di migliorare il diagramma aggiungendo ulteriori suddivisioni, modifiche o sfumature ad infinitum. Al contrario, dobbiamo interrogarci sulla legittimità della figura conica quale mezzo per inquadrare il futuro nel senso tradizionale, ovvero come ciò che potrebbe avvenire o che avverrà. Il problema fondamentale di questo strumento è che suggerisce uno sviluppo lineare della Storia (categoria peraltro inesistente nel vocabolario dei tardofuturisti), come fosse un tappeto che si srotola. Difatti la proiezione del cono si sviluppa necessariamente da un singolo punto, a partire dal quale ciò che viene dopo, a dispetto della maggiore o minore probabilità, è pur sempre predeterminato. In tal senso, il cono di Voros è analogo alle città ideali come quella dipinta da Piero della Francesca, che non a caso è massimamente statica: i vari edifici sono imbrigliati nella medesima griglia prodotta dalla prospettiva centrale. Questa concettualizzazione deterministica impedisce al nuovo di essere riconosciuto e dunque di emergere, perché nel differente non c’è reale alterità, come in una linea, retta o curva che sia, fatta di punti differenti ma pur sempre simili tra loro, in quanto prodotti da una formula prestabilita.

Il tardofuturista è egli stesso statico, saldo in una posizione di osservazione, e contempla lo svolgersi della eventi come si guarda attraverso un cannocchiale. Sa (a volte senza saperlo) che il dopo, in un modo o nell’altro, risponderà alla logica del prima. Non solo: essendo il tardofuturista fuori dallo sviluppo storico, non può immaginare la sua stessa fine. In altre parole, può l’addetto al foresight di una qualche compagnia immaginare uno scenario in cui detta compagnia fallisca, e magari sostenere addirittura che si tratti di uno scenario preferibile? Da questo punto di vista fa di più e meglio del tardofuturismo l’ormai nota vignetta del New Yorker di Tom Toro: un paesaggio post-apocalittico è illuminato da un fuocherello di fortuna davanti al quale un broker spiega ai presenti che: “Sì, il pianeta è stato distrutto. Ma per un breve, bellissimo momento abbiamo creato parecchio valore per gli azionisti.” Con mezzi frugali la vignetta sorpassa in immaginazione ed efficacia gran parte degli scenari in alta risoluzione prodotti dai professionisti dell’anticipazione, che grazie a Midjourney e simili possono finalmente generare in un batter di ciglia tera su tera di immagini pseudo-hollywoodiane utili a illustrare sentimentalismi vari sulla necessità di “immaginare altrimenti”.

Una volta cestinato il cono di Voros (se non per utilizzi molto basilari o pedagogici) in quanto strumento surrettiziamente deterministico che, attraverso il differente, limita l’emergere dell’altro, ci spetta il compito di proporre un modello, o perlomeno un’immagine, che ci permetta di inquadrare la dinamica del nuovo, ovvero del cambiamento radicale. Da dove partire? Già diverso tempo fa, Ballard registrava l’impressione secondo cui “il cambiamento abbia rallentato il ritmo, oppure, forse, che sia passato in clandestinità.” È proprio l’ipotesi della clandestinità che dobbiamo prendere in considerazione, estremizzandola.

Il filosofo ed economista Cornelius Castoriadis ha dedicato al problema del cambiamento radicale il suo chef-d’œuvre intitolato L’istituzione immaginaria della società (da cui ho ripreso la distinzione tra differenza e alterità). Castoriadis definisce un po’ enigmaticamente il nuovo come l’emergere di figure. Devo ammettere che ho faticato parecchio a costruire un’immagine mentale di questa idea fino a quando non mi sono imbattuto, attraverso l’opera di Donna Haraway, in un’analogia perfetta: il gioco della matassa. Esso consiste nell’intreccio di fili tirati da due o più mani, in cui ogni dito tira un filo differente in una costante trasformazione della rete prodotta. All’inizio ciò che vediamo è solo il combinarsi di una trama indistinta, ma tutt’a un tratto accade qualcosa di inaspettato: la rete informe acquista le sembianze di un animale, una pianta, una stella. È emersa una figura.

Nel gioco della matassa non c’è sviluppo lineare, o meglio c’è, ma solo se ci si impunta su una visione atomizzata della storia quale brulicante domino di micro-eventi in successione, perdendo così, però, il significato profondo dell’analogia. Il nuovo è prodotto dall’interazione tra diversi attori che, pur essendo in relazione tra loro, agiscono in maniera più o meno autonoma senza sapere fino in fondo quale forma stanno contribuendo a creare. Una volta riconosciuta tale forma, si può decidere di stabilizzarla. A quel punto si “istituisce” il nuovo che, proprio in quel momento, cessa di esserlo. Non c’è estrapolazione qui, se non quella dei singoli attori che agiscono entro il loro individuale cono di possibilità. In tale contesto la preferibilità perde valore, in quanto attributo del singolo attore. Al contrario, c’è molta più preposterousness del previsto, perché il nuovo, così inteso, è sempre strano, se non assurdo.

Secondo Bifo, il passaggio dal possibile al reale consiste nell’“[e]strarre e realizzare una delle molte futurabilità immanenti.” Questa idea si rivela ancora troppo determinista, perché se le futurabilità fossero “inscritte nella istituzione presente del mondo”, allora sarebbero già deducibili, estrapolabili e dunque rappresenterebbero un mero sviluppo del presente, ovvero niente di nuovo. Bifo questo lo sa, infatti afferma che “la relazione tra adesso e domani, tra stato presente e stato futuro delle cose, non è necessaria né è necessitata. Il presente non contiene il futuro come se fosse un suo sviluppo lineare.” Tuttavia, noi diciamo un’altra cosa: il nuovo non è nemmeno non-lineare o complesso: è altro. Può essere riportato alla dimensione più o meno complessa del rapporto causa-effetto solo a posteriori, perché come spiega Emmanuel Carrère, “in storia non esistono leggi che possano spiegare le rivoluzioni come si spiega l’ebollizione dell’acqua portata a una certa temperatura.” Se pure il nuovo esistesse da qualche parte, quel luogo ci è inaccessibile. E qui ci riconciliamo con Bifo, fermamente convinto che “nella vita come nella storia l’inevitabile in generale non si verifica, perché quello che accade è l’imprevedibile.”

La classe professional-visionaria

Per il tardofuturista il futuro non è qualcosa che si costruisce, si attua o si previene, bensì qualcosa che si immagina. L’immaginazione del tardofuturista, però, non vuole essere quella dell’economista che anticipa la crescita del PIL nel primo trimestre, bensì quella del ragazzino che vive l’avventura della Storia infinita: la sua è immaginazione radicale. Secondo una delle innumerevoli definizioni, si tratta del “coraggio di immaginare un futuro completamente diverso dal mondo attuale”. Sognare a occhi aperti sì, ma rinvigorendo la vista con l’ambizione dell’impegno sociale. Il tardofuturista parte infatti dal presupposto che l’attività immaginativa sia attualmente depotenziata e abbia bisogno di un boost.

Per inquadrare meglio questo concetto conviene risalire a un saggio di dieci anni fa, intitolato appunto The Radical Imagination. Anticipando l’uso attuale del termine, gli autori Max Haiven e Alex Khasnabish sostengono che “[l]’immaginazione radicale è un termine usato da molti ed esplorato da pochi” poiché, come essi stessi ammettono, sfugge a qualsivoglia definizione. È insomma un “termine aspirazionale, in gran parte privo di qualsiasi contenuto o significato concreto”. Quindi, aggiungiamo noi, adatto ad accogliere le aspirazioni di chiunque, compresa una classe professional-visionaria. Se da un lato gli autori sembrano condividere la tesi per cui l’immaginazione sia oggi indebolita, dall’altro insistono che si tratta di un’attività strettamente se non necessariamente legata ai movimenti sociali, concludendo che “[s]enza l’immaginazione radicale, ciò che ci resta sono solo i sogni residuali dei potenti.” Ma allora viene da chiedersi: cosa succede quando questi stessi sogni residuali si presentano come radicali?

Il motivo per cui la parola ‘immaginazione’ ha trovato terreno fertile fra i tardofuturisti va ricercata, naturalmente, nel passato. Nel 2007 il giornalista Bruce Nussbaum scriveva:

Agli uomini e alle donne d’affari non piace il termine “design”. Credo che gli faccia pensare ai drappeggi o agli indumenti. Anche gli amministratori delegati che sposano la causa del design non vogliono chiamarlo così. Vogliono chiamarlo “innovazione”. È un termine che ha un’accezione virile. È forte, tecnico. Questi individui sono perfettamente disposti a usare la parola “visione”, qualunque cosa sia la “visione”. A loro piace “immaginazione”, qualunque cosa significhi. Ma non gli piace “design”. Valli a capire.

Sufficientemente generica da intrigare tanto l’angel investor a caccia di unicorni quanto il burocrate che elargisce fondi, abbastanza poetica da ammorbidire i cuori durante un discorso pubblico, chi potrebbe essere contro l’immaginazione, specialmente se ammantata dell’impegno politico di “attivisti coraggiosi, artisti visionari e organizzatori agguerriti” (e poco importa che agguerriti, visionari e coraggiosi lo siano davvero)? Esiste quindi da un lato l’immaginazione sempliciotta e conservatrice di Star Wars e dei suoi fan, e dall’altro l’immaginazione eroica e progressista di un gruppo di impavidi esperti che non riscuoterebbero lo stesso risultato chiamando il loro lavoro semplicemente design o magari facilitazione.

Così, quella che per Haiven e Khasnabish è un’attività di mediazione umile, complessa e faticosa, diventa per una design-star “letteralmente, l’immaginazione spinta al massimo”. Nel frattempo, qualcun’altro sostiene che “anche quando non abbiamo tutte le risposte, crediamo fermamente che il futuro sia straordinario e continuiamo a manifestare questa visione irresistibile”. Parole, queste, che non stonerebbero in qualche reel sulla Legge dell’attrazione: l’immaginazione radicale si rivela così analoga all’ottimismo da auto-aiuto, a quella che anche i meno scettici chiamano oggi “positività tossica”, la stessa positività che obnubila la chiara percezione della fine del futuro. Detto altrimenti, se l’enfasi sul potere di immaginare altro può avere un senso in contesti di attivismo quotidiano, dove il peso della realtà può essere schiacciante, lo ha meno nel contesto del design, del management e del consulting dove bisognerebbe dare per scontato che l’immaginazione può produrre il cambiamento. Così, questa diventa un’enorme pacca sulle spalle che il tardofuturista si dà da sé, infondendo fiducia nei suoi sogni residuali professionalizzati. Dal canto suo, il designer, che dovrebbe lavorare di compromesso ai margini del reale, diventa improvvisamente coraggioso nel momento in cui li ignora, tuffandosi nel sogno. Nel corso di un decennio, l’immaginazione radicale è passata dunque dall’essere uno strumento a servizio dei movimenti per la giustizia sociale a una risorsa per la classe professional-visionaria di cui i tardofuturisti fanno parte. Dallo spazio autogestito alla conference room: una vera e propria ‘cattura delle élite’, come si suol dire.

Max Haiven, che non è un designer bensì un politologo, mostra in un suo recente progetto (sviluppato assieme a Xenia Benivolski, Sarah Olutola e Graeme Webb) come l’immaginazione radicale possa sfuggire alle soffici zampette dei tardofuturisti. The World after Amazon è una raccolta di storie speculative scritte da alcuni lavoratori del colosso americano del retail. In questo volume, i curatori non si sono posti come professionisti della visione (non a caso il workshop originale si intitolava “Worker as Futurist”), bensì come facilitatori al servizio dell’immaginazione già presente nel punto di vista dei lavoratori – seppur cadendo, talvolta, in qualche accademismo e romantizzazione. The World after Amazon è dunque un’opera organizzativa più che autoriale, che ha coinvolto incontri, laboratori di scrittura e più in generale una solidarietà concreta.

La fine del mondo

A proposito di immaginazione militante, il refrain di Jameson, popolarizzato successivamente da Mark Fisher, secondo cui “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo” starebbe a significare che il capitalismo è così ponderoso, ubiquo e asfittico da non lasciare alcuna via d’uscita né pratica né poetica. Ancora Fisher: “Il capitalismo occupa ininterrottamente gli orizzonti dell’immaginabile.” Qui, però, vorrei azzardare un’interpretazione alternativa: la fine del mondo è facile da immaginare poiché si tratta del futuro come modo del presente, ovvero di ciò che è più o meno linearmente estrapolabile dal presente non-straniato. La fine del capitalismo, difficile o forse impossibile da immaginare, è invece il nuovo, l’altro, ciò che forse è addirittura già qui ma non è ancora emerso come figura riconoscibile. E non è detto che sia una bella figura: McKenzie Wark, ad esempio, si chiede se ad attenderci non sia qualcosa di peggio.

La “fine del mondo” è un esercizio tutto sommato semplice poiché non scardina il presente: è riconducibile a tutte le utopie e distopie che abbiamo visto prima al cinema e poi su Netflix. Il futuro è insomma inflazionato. La fabbrica del nuovo ci è invece quasi del tutto sconosciuta. Ma se è così, che ce ne facciamo dell’immaginazione? L’immaginazione non ci serve tanto a intravedere il futuro, possibile o meno, quanto a straniare il presente. Non dobbiamo immaginare, ma vedere oltre, come in un’autostereogramma dove per inquadrare la sagoma dello squalo tocca storcere gli occhi. Più che di immaginazione abbiamo quindi bisogno di lungimiranza: dobbiamo oltrepassare con lo sguardo il velo del presente nel presente. Per fare questo ci serve un luogo dove esercitare questa visione, il passato, che però dobbiamo strutturare affinché ci dia il giusto slancio nel nostro tempo: dobbiamo reinventarlo. In fondo è questo che tenta di fare la fantascienza in ogni caso, anche quando parla del 4272 DC. Lo si nota bene in quelle storie che, pur coinvolgendo alieni e macchine volanti, ci paiono così smaccatamente anni ’50. Nelle parole di Ballard:

La coscienza non è altro che un passaggio tra un ordine morente, il passato, e un ordine imminente, il futuro, in un mondo in cui anche le persone che ci sono più prossime ci sono estranee per molti aspetti – anche gli esseri che amiamo ci sono stranieri.

L’odio

Un caso di estraneità al presente che mi sta molto a cuore è quello di William Morris, tra i principali esponenti del movimento Arts and Crafts. Assieme al suo mentore John Ruskin e al gruppo dei Preraffaelliti, Morris ha gettato uno sguardo straniante sul suo tempo, osservando la Londra brutta, sporca e disumana di Dickens, suo contemporaneo, come se fosse un uomo catapultato, per chissà quale maledizione, dal Medioevo all’Età vittoriana. “Oltre al desiderio di produrre cose belle, la passione dominante della mia vita è stata ed è ancora l’odio per la civiltà moderna”, rifletteva Morris nel 1894. Egli era insomma un romantico, infatti acquisì notorietà innanzitutto grazie a interminabili poemi epici che oggi in pochi ricordano; affermandosi soltanto dopo come l’artigiano proto-designer che tutti conoscono.

Fin qui si potrebbe pensare a una tipica storia di escapismo, di un nerd di fine ottocento che si rifugia in un mondo fantasy fatto di camagli e spadoni. E infatti, accorgendosi di ciò egli stesso, ovvero dell’impotenza melanconica della sua opera, Morris cade in depressione. A che serve tutta la cura contenuta in un mobile o in un tessuto, se la classe abbiente che se li può permettere continua ad appestare il mondo con la sua ignoranza e ipocrisia, diffondendo ovunque, tranne che nei suoi ambienti – e a volte anche lì –, squallore e brutalità? Morris trova la risposta a questo dilemma nel Socialismo, una corrente politica all’epoca minoritaria e marginale, che nel Regno Unito contava pochissimi adepti (il Capitale di Marx non era stato ancora tradotto in inglese). Il proto-designer britannico intravede nel Socialismo il nuovo, la figura altra. Ma è proprio grazie al suo sguardo estraneo, profondamente ancorato in un Medioevo inventato, che Morris trova l’appoggio per gettarsi verso l’avvenire. La menzogna del passato gli consente di mettere a fuoco il nuovo che emerge.

Morire bene

“Hai un grande futuro alle spalle.” Con questo strano ammonimento si apre Cultura profetica, saggio in cui Federico Campagna (che coglie in pieno il punto quando definisce la predizione “una sorta di interior design del futuro”) trova nella menzogna mitica la via d’uscita da una modernità idiota e ormai moribonda; una via d’uscita – spiace dirlo – da noi stessi. Il passato siamo noi, e quindi non ci spetta il compito di immaginare il futuro, bensì quello di offrire l’ultima testimonianza del nostro tempo, che però non deve essere necessariamente letterale o veritiera; non deve essere per forza la cronaca di un fallimento, bensì – se vuole sopravvivere – deve essere meravigliosa e sbalorditiva, come il Medioevo di William Morris. Scrive Campagna:

Qualunque cosa sia riuscita a produrre e per quanto perfetta possa essere la sua eredità culturale, l’unica possibilità che [una civiltà] ha di trasmettere la propria storia a un orecchio futuro è di essere male interpretata, fraintesa, fatta a pezzi, saccheggiata e ricomposta. Pure così, qualcosa, comunque, rimane fedele alla voce originale del suo mondo e del suo tempo-segmento – un’eco genetica che ancora risuona nei suoi lontani discendenti.

Non vi può essere oggi un uso fertile dell’immaginazione che non tenga conto della triste premessa che il futuro è morto. Ciò vuol dire che con esso sono morte le nostre speranze e quindi in un certo senso noi stessi; che il nuovo non ci apparterrà, che noi saremo alieni ad esso. Anzi, già lo siamo, perché il nuovo già ribolle sottoterra, e quando il magma ci sommergerà sarà troppo tardi. Dunque il massimo che possiamo chiedere è, come spiega Campagna, un’altra occasione, sperando che qualcuno la colga, ma non attraverso la vuota promessa di un futuro migliore, bensì con “l’offerta concreta di un passato migliore.” Solo chi sarà lì a ricevere questa offerta saprà dire se siamo almeno riusciti a morire bene.

Il futuro cementifica / La vita possibile / Qui la vista era incredibile / Da oggi è probabile / Che ciò che siamo stati non saremo più – Baustelle