Testo pubblicato originariamente in lingua inglese sul blog dell’Institute of Network Cultures, 13 aprile 2020.
Durante queste lunghe giornate, pensare è difficile. Gli aggiornamenti sul Coronavirus giungono da ogni dove: amici, famiglia, lavoro, governi, finanza, l’economia in generale. Nessuno di essi può essere ignorato. Ricordate, ci lamentavamo del sovraccarico di informazioni. E adesso? Ora che siamo ininterrottamente sintonizzati su diversi canali: app, radio, TV e giornali, chat Whatsapp con persone che abitano vari paesi e fusi orari. Ora che le nostre menti sono occupate dalle condizioni dei nostri parenti e conoscenti, dalla scarsità selettiva di supermercati vicini, dalle permutazioni dei nostri traballanti calendari, dalla proliferazione di software da installare. Ci sforziamo di cambiare i nostri automatismi, come quello di toccarci il viso. In molti modi non siamo noi stessi.
Non è il momento di fare congetture. Le “instatheory” saltano fuori e invecchiano nel giro di una settimana. Siamo chiusi non solo nelle nostre stanze condivise, negli studi e negli appartamenti, ma anche nel momento presente? È probabile. Eppure molto di questo presente sarà il materiale per le immagini e i motivi principali degli anni a venire. Mentre alcune tendenze si cristallizzano, emergono altre controtendenze. Lo shock di marzo-aprile 2020 è stato un momento di biforcazione, un momento in cui le cose possono prendere direzioni completamente diverse, tra le quali c’è anche una recrudescenza cosmetica dell’ordinario. Lo vediamo nei telegiornali: quello che era lo “stringo la mano” di ieri è il “resta a casa” di oggi. Cosa possiamo fare allora? Qui cerchiamo di raccontare il presente: fare in modo che aspetti apparentemente minuti di questo stato d’eccezione non passino inosservati: una nuova abitudine, un nuovo protocollo sociale, ecc. Il cambiamento sta avvenendo a varie scale, tutte correlate tra loro. Si accumulano sottili cambiamenti della vita quotidiana. Improvvisamente, non riconoscendo più questa vita quotidiana, ci si può chiedere: come siamo arrivati a questo punto?
Prima che questo accada, guardiamo al momento attuale per individuare i nuovi comportamenti che stiamo più o meno consapevolmente adottando, per identificare le mutazioni sociali destinate a restare, per discernere quali di queste dovrebbero essere incoraggiate o prevenute.
Prima di tutto, alcune considerazioni. Prima del Coronavirus era il tempo del romanticismo offline, il tempo di disconnettersi, di fare una pausa, di riscoprire l’autenticità fantastica del meatspace. Ora è il tempo del defaultismo online. Le cose possono continuare come sempre grazie a soluzioni di lavoro “smart”; podcast e convegni online possono trasmettere convivialità; il tedio della quarantena può essere superato con una buona dose di Nintendo Switch e Netflix. Eppure, sentiamo la pochezza di questo doppio della vita sociale in rete. Certo, l’online non è meno reale dell’offline. Eppure, mentre non si escludono a vicenda, non sono destinati a sostituirsi reciprocamente. E, cosa ancora più importante, la conversione dall’uno all’altro non è senza perdite. Per dirla con Franco Berardi, il congiuntivo supera il connettivo.
Il lavoro a distanza è per molti versi concreto e corporeo come il lavoro in situ — se non di più: le videochiamate evidenziano le imperfezioni del medium con conseguenti mal di testa e perdita di concentrazione. Il wifi mediocre disturba il cyborg umano di Skype. Il lavoro a distanza porta l’intimità della famiglia nella scena del lavoro. Ricordate il giornalista la cui intervista in diretta sulla BBC è stata interrotta dall’allegro viavai dei suoi figli, con la moglie che correva a recuperarli? Beh, questa è la condizione attuale di tutti quelli che hanno una famiglia in ogni momento. Il disordine della vita penetra nella virtualità asettica dell’ufficio digitale. Prima pensavamo alla casa come a un ritiro dal lavoro, ora ci rendiamo conto che il lavoro fungeva da rifugio dalla vita domestica. Parliamo dal punto di vista di persone abituate a fare videochiamate, a manipolare le finestre sullo schermo, a tagliare e incollare file, ma che dire degli altri? Persone che all’improvviso si trovano a dover installare software, che si avvicinano timidamente a un computer che non è il loro cellulare, cercando di orientarsi in interfacce spaziali complesse? L’alfabetizzazione digitale acquista una nuova urgenza, emergono nuove forme di divario digitale. Assisteremo a una rinascita del computer da scrivania?
Il lockdown è accompagnato da un lock-in a livello di software: le organizzazioni sono orientate verso soluzioni preconfezionate e centralizzate. Assistiamo alla zoomificazione del lavoro. Il live streaming sta prendendo il sopravvento sulle piccole e affollate ma semplicistiche interfacce dei social media basate su testo, immagini e icone. Prima del Coronavirus, sopravviveva un certo grado di informalità tecnica. Videoconferenze, appunti, memo, chat… ognuno poteva proporre e utilizzare lo strumento o il servizio più adatto alle proprie esigenze tecniche, ai principi etici e alle proprie idiosincrasie personali. Lo stato d’eccezione ha vietato questa varietà e con essa il diritto di rifiutare alcune funzioni insidiose. Gruppi “di emergenza” Whatsapp attivi a ogni ora del giorno, rapporti obbligatori su Slack per tenere aggiornato tutto il team (che pochi poi effettivamente leggono), videochiamate che permettono di monitorare il livello di attenzione dei partecipanti.
Tutte queste soluzioni sono spuntate come funghi. Forse ci sono voluti solo alcuni giorni per creare le condizioni del lavoro a distanza per i prossimi anni, e non sembrano certo favorevoli. Lo stesso vale per la nostra partecipazione alle sessioni di Zoom. Oltre a tutte le preoccupazioni da selfie relative al viso e alla postura corretta, ora ci preoccupiamo anche dei livelli sonori, del sottofondo, degli animali e dei bambini che vengono a disturbare. È il loro ambiente, dopo tutto. Ci è mai stato chiesto di rispettare questa intrusione nel nostro spazio privato? Non siamo ingegneri del suono e non abbiamo uno studio televisivo privato in casa. Tutte le ansie dell’emergente influencer class sono diventate, da un giorno all’altro, preoccupazioni generali. La storia ci ha riportato indietro nel 2005, poiché il nostro lavoro consiste ora nel guardare contenuti generati dagli utenti, questa volta prodotti da amici, familiari e colleghi professionisti che non erano del tutto preparati a diventare ”‘star dello streaming”.
l COVID-19 è il messaggio grazie a cui il medium delle condizioni preesistenti può rimanere invariato. Abbiamo gridato “questo non è business as usual” durante i soliti incontri, con i soliti orari, alle solite persone. “Stop” era la parola proibita. Le organizzazioni culturali, il cui ruolo fondamentale è quello di perpetuarsi, hanno preteso resilienza, vale a dire che la loro forza-lavoro atomizzata ha dovuto implementare ingegnosità e flessibilità. Nel frattempo, la stessa forza-lavoro stava compilando liste di risorse utili, scrivendo lettere aperte e firmando petizioni per esprimere le sue preoccupazioni. Lo ha fatto in modo informale, nel tempo libero, a beneficio delle organizzazioni.
L’onere organizzativo scaricato sui lavoratori è stato triplice: organizzare il contenuto stesso del loro lavoro, organizzare la sua forma remota come richiesto dalle organizzazioni, e infine organizzare una reazione a questa forma. Non si è persa nemmeno una settimana. Nelle scuole e nelle accademie, le conferenze e le lezioni continuavano a svolgersi, anche quando era farsescamente chiaro che una pausa era necessaria. Le università olandesi hanno fatto pressioni per ottenere lo status di “professione vitale”. È stata una questione di autostima, di paura dell’idea di essere irrilevanti in un momento di crisi, dopo tutte le ciance su “cosa può fare il design” e sul suo “impatto”. I lavoratori culturali le cui attività non sono state rinviate o “sospese”, sono stati capaci di stare all’erta, di improvvisare, di organizzare il lavoro, ma non di fermarlo. Questa parola, “stop”, ha attraversato la mente di molti di loro, alcuni l’hanno anche pronunciata ad alta voce, a rischio di apparire antagonisti o addirittura pigri, quando tutti gli altri pensavano che una dimostrazione di impegno fosse un loro dovere civico. In questo caso la biforcazione si è palesata chiaramente: fermarsi o continuare. Abbiamo scelto di continuare.
Come ci si poteva aspettare, l’organizzazione politica in tempi di Coronavirus è frenetica — eppure è bloccata. L’idea che la gente, una volta online e con del tempo libero a disposizione, possa provocare una rivoluzione nel cyberspazio è ancora quella che è sempre stata: fantascienza. Come mai? Perché proprio quel cyberspazio sta impedendo la sospensione necessaria per osservare e analizzare la situazione, per produrre quell’interruzione che chiamiamo pensiero. Al contrario, ci “adattiamo” semplicemente a questa situazione aliena, guardandola attraverso lo specchietto retrovisore della routine.Dove sono gli sciami online che bloccano, hackerano, cancella-no, si impadroniscono delle risorse virtuali dei ricchi e dei potenti? Le orde del DDOS sono solo impegnate con l’Istituto Italiano di Previdenza Sociale? Si sono tutti fatti risucchiare da Discord, o da Slack, i nostri ribelli senza una causa? Che cosa stiamo sognando qui, comunque? Dobbiamo reclamare l’asincronia? Ci troviamo invece di fronte a vari gradi di disperazione e di isolamento, in cui ogni forma selvaggia e inaspettata di “comunicazione mediata dal computer” sicuramente non avviene. Siamo intrappolati nelle gabbie dorate virtuali del passato, 24 ore su 24, 7 giorni su 7, filter bubbles che raramente risultano confortevoli.È questo l’incontro col reale che desideriamo? Come ci dovremmo arrivare, noi europei?
In solidarietà, contro il sentimentalismo.
Precari, con il peggio a venire.