«Tutto fa la stessa cosa»: Una conversazione con Marco Montanaro

Sobrietà, Interview, 2025

Una cosa che mi colpisce sempre dei post Facebook di Silvio Lorusso (tornato da pochissimo in libreria con Il designer senza qualità. Saggi su design e disillusione) è la tensione verso l’aforisma. Che scriva di cultura digitale, tecnologia, design o altro, Silvio punta al nocciolo della questione con una pienezza di spirito, un tono ironico ma non sprezzante e un’assoluta ricerca per la pulizia formale. Ogni suo post è un piccolo Aleph borgesiano, da cui si può scorgere tutto il cosmo, tutto l’universo in ogni momento passato e futuro.

Per farla breve, i post di Silvio sono uno dei pochi motivi per cui personalmente resto ancora su Facebook. Per questo, ma non solo per questo – più in generale, direi per il suo approccio aperto e laico alla materia digitale e alle sue evoluzioni – Silvio era da tempo nella lista desideri delle interviste di Sobrietà; a un certo punto ho sentito che il momento giusto era arrivato. Così abbiamo scambiato qualche mail e siamo partiti, cominciando proprio da Facebook, che nelle parole di Silvio è “il miglior social media di questi tempi”. Buona lettura.

Ciao Silvio. Vorrei partire da una cosa che mi hai detto tempo fa: “Facebook è il miglior social media di questi tempi”. La percezione generale mi sembra diversa, però.

Ciao Marco. Una premessa: ironicamente, quando si parla di vaste piattaforme generaliste come Facebook, bisognerebbe evitare appunto di generalizzare, poiché le generalizzazioni (ad esempio, Facebook = boomer) ci impediscono di vedere i social media per quello che sono, ovvero quello che sono per noi.

Facebook, come tutti i social, è innegabilmente peggiorato: si è “enshittificato”, come si dice oggi, secondo uno sgradevole neologismo che rispecchia tempi sgradevoli (sono lontani i tempi in cui si “surfava” il web…). Ma anche noi utenti siamo cambiati: non abbiamo più tanta voglia di polemizzare, ci siamo resi finalmente conto che «la comprensione è un caso particolare del malinteso», e riconosciamo subito chi va a caccia di engagement. È questa consapevolezza, guadagnata con fatica e dolore, che fa di Facebook il miglior social media di questi tempi. Abbiamo smesso di prendere sul serio gli “hustler”, i generici, quelli che si esprimono su tutto e su ciascuna cosa, basta che sia all’ordine del giorno, quelli che ieri hanno denunciato le nefandezze del gruppo Mia Moglie, l’altro ieri hanno proposto una teoria relativa all’intelligenza artificiale e il giorno prima hanno fatto un appello per un’urgente causa sociale. Tra di essi, purtroppo, vi sono anche i “buoni”: autori di talento, ricercatori svegli, intellettuali di varia specie che non resistono alla tentazione di tuffarsi nel vortice dell’attualità. E invece l’attualità è il grande avversario dell’intellettuale, il quale dovrebbe tenerla a debita distanza, vivendo per quanto possibile nascosto.

Se non sbaglio era questa l’opinione di Manlio Sgalambro, e l’ho scoperto tramite uno di quei contatti che agiscono diversamente: sono lì, sulla pubblica piazza del social, per offrire qualcosa di speciale, di più prezioso della loro indignazione o perspicacia. C’è poi chi gioca con l’assurdo (“post che uppo ogni volta che prendo il paracetamolo”), chi inventa microgeneri (penso a un’ottima illustratrice i cui post sembrano un mix di Clarice Lispector e Giuseppe Berto), chi coltiva un interesse specifico costante e duraturo… Tutti loro condividono qualcosa: hanno superato l’abbaglio novecentesco di una sfera pubblica razionale fatta di argomentazione, dibattito, “spirito di gravità”.

Ma molta gente, intanto, è andata via da Fb. O almeno così si dice.

Sì, molta gente ha abbandonato la nave, ed è un bene. Due anni fa scrivevo: «Fra un po’ su Facebook resteremo solo io che posto pensierini e citazioni, e mia zia che di tanto in tanto mi manda un saluto. Insomma, un idillio.» I nuovi arrivati, i tardivi, sono generalmente utenti migliori, perché non hanno foga. Prendi Werner Herzog, nostro idolo comune, che approda su Instagram con un candore quasi sconcertante.

Insomma basta early adopter, basta ambizioni da opinion leader. Si può vivere ingenuamente, dunque saggiamente, anche sui social. Intanto mi sembra che l’early adopting si sia spostato su ambienti legati ad AI e relazioni/interazioni direttamente con la macchina.

Esatto. Tuttavia l’early adopting relativo all’AI ha in sé qualcosa di disperato: rispetto all’adozione prematura del primo iPhone, che si è imposto sul mercato per anni, dando quindi il tempo di riflettere sulla sua novità, quella dell’ultimo LLM di OpenAI nasce già in ritardo, sia perché decine di utenti adottivi hanno già pubblicato i risultati dei loro “test”, sia perché sta già covando il prossimo modello, come lo xenomorfo di Alien. Si dà quindi questa strana coincidenza dell’early adopter (e poco importa che sia critico o meno) con la late majority. Detta altrimenti, quella che è ineluttabilmente una tarda maggioranza si pensa e si presenta come un’avanguardia. Mi sembra che siano pochi quelli che decidono di sottrarsi alla corsa, smettere di perpetuare il presente e rinnegare in toto il “technology adoption life cycle”, che altro non è che una moralizzazione del nostro rapporto con la tecnologia. Ciò non implica necessariamente una rinuncia a parlare di AI, ma invita a farlo in un maniera che definirei “asincrona”, magari ricorrendo a fonti remote o addirittura antiche. Un esempio: «Una macchina intelligente può fabbricare oggetti stupidi. Così spesso l’intelligenza si trova compromessa con l’idiozia.» Sono parole di Leonardo Sinisgalli. Anche il titolo del libro che le contiene, pubblicato nel 1970, è profetico: Calcoli e fandonie.

Altra vecchia fonte: “E cos’è quel lume della verità, se tu ironizzi?” scriveva Amelia Rosselli. L’ironia è dappertutto. Penso all’instant marketing che per anni ha monetizzato sull’attualità con battute e ammiccamenti (Taffo e un sacco di altri brand), ma anche alle tante persone comuni che tiktokizzano la propria vita con sketch domestici che dovrebbero far ridere, ma raramente ci riescono.

È vero che ancora adesso non sappiamo far altro che ironizzare, e che persino a fronte di guerre e tragedie una “nuova sincerità” ci è preclusa, ma trovo che il caso dell’instant marketing sia diverso, se non addirittura opposto. La caratteristica principale dell’ironia postmoderna è il distacco, ma ad esempio Taffo e compagnia bella sono tutt’altro che distaccati: utilizzano l’intera tavolozza del contemporaneo con l’esplicito obiettivo di vendere il loro prodotto. In tal senso, sono “sinceri”. Perciò ritengo che l’ultima forma possibile di autenticità online sia proprio la promozione. Infatti mi piace chi, anche goffamente, prova a infilare un riferimento al prodotto appena lanciato anche laddove non c’entra niente, un po’ come quando nei talk show il politico o giornalista di turno pone i libri che ha scritto a favore di webcam. Ciò che è invece “inautenticamente sincero”, e dunque kitsch, è la postura del professionista della cultura che con i suoi post parrebbe prendere posizione, orchestrare il dibattito, denunciare un torto ecc. quando invece non sta facendo altro che generare engagement, proprio come Taffo. Come sostengono i patafisici, «tutto fa la stessa cosa».

Hai citato il kitsch. Qual è il rapporto tra kitsch e cringe, se c’è? Par proprio, tra l’altro, che sia passato di moda dare del cringe a qualcuno. Anche la parola “cringe” è diventata cringe? O forse è sempre stata… kitsch?

Bisognerebbe chiederlo al compianto Tommaso Labranca… Se non ricordo male, nel libro di Claudio Giunta a lui dedicato c’è una differenziazione ragionata di kitsch, camp e trash; categoria ancora utilissima, quest’ultima. Grazie a Google scopro che il cringe altro non è che un imbarazzo vicario. Se le cose stanno davvero così, dovremmo rallegrarci, perché ciò vuol dire che il cringe ci permette almeno di metterci nei panni del prossimo, condividendone il disagio. Ma a giudicare da ciò che ne dicono autori più giovani ed esperti di me (penso a Ocean Vuong), il cringe funge in realtà da strumento punitivo.

Prima parlavi di “moralizzazione del nostro rapporto con la tecnologia”.

Lì mi riferivo all’imperativo dell’update, dello stare al passo coi tempi. Chiamare laggards (“tardoni”) quelli che per infinite ragioni decidono di non aggiornarsi, vuol dire evidenziare in loro un difetto morale. Peraltro, tale difetto non è percepito solo a livello individuale ma sono le stesse istituzioni a interiorizzarlo, scuola in primis, manifestando un certo senso di colpa che viene compensato investendo scriteriatamente su tutto ciò che si presenta come tecnologicamente all’avanguardia. Anni fa Roberto Casati parlava a tal proposito di colonialismo digitale.
C’è però anche un moralismo di segno opposto, molto frequente nel mondo della cultura, che definirei romantico. È il misoneismo a prescindere di chi difende «ciò che ci resta di umano». Forse il suo maggiore esponente è l’ultimo Byung-Chul Han, ormai formulaico nello stile, rarefatto nelle critiche, ultranostalgico nei riferimenti alla cultura materiale (il jukebox!). Con questo armamentario, il successo è assicurato.

Se sono queste le alternative, allora meglio il “soluzionismo” di chi almeno maneggia gli strumenti che analizza. Oppure, se proprio si deve tendere al pessimismo, che sia almeno un pessimismo maestoso e poetico, bensì radicato nei fatti sociali, come quello di un Bifo o un Lovink, i quali non a caso nel corso della loro carriera si sono sporcati le mani con le tecnologie più disparate.

Ammetto ogni tanto di aver fatto anch’io il misoneista, peraltro un po’ musone. Credo che molto della nostra esperienza con la tecnologia passi dal piacere fisico e sensuale che ne ricaviamo utilizzandola. A un certo punto, parlo per me, la sofferenza ha superato di gran lunga il piacere, e allora eccomi qui che non so più cosa pensare e chiedo a te: tu come la vivi, questa cosa del piacere e della sofferenza?

Bastone e carota, direi. Il problema è che a un certo punto la carota ha cominciato a bastonarci. Intendo dire che un tempo cazzeggiare di fronte al computer, su internet ecc. era un’esperienza stupenda, ludica, magica, altra. Poi, è andata a finire che il lavoro penetrasse anche quell’esperienza, rovinandola, annullandola. Per un certo periodo ho avuto due laptop: un vecchio ThinkPad per sperimentare col codice e giocare i giochi di Internet Archive, e l’altro per soffrire, ovvero lavorare, anzi nemmeno lavorare, bensì difendermi con le unghie e con i denti dai vampiri dell’attenzione al fine di combinare qualcosa. Trovo infatti azzeccatissima questa tua frase: “La verità è che attualmente il mio vero mestiere consiste nel trattenere un numero incredibile di informazioni contro la mia stessa volontà.”

A proposito di mestiere, sai che penso di esser cascato con tutte le scarpe nella trappola dell’autoimprenditorialità, o dell’entreprecariat come lo hai ridefinito tu?

Non so se può consolarti, ma per come l’ho descritto l’“imprendicariato” è composto da gironi infernali ben peggiori. Mi riferisco all’autoimprendiorialità tragica di chi deve spingere sulle piattaforme di crowdfunding per pagarsi un’operazione urgente…

Già che ci siamo, allora: come si è evoluta la storia dell’imprendicariato, negli ultimi anni?

Mi sto ponendo questa domanda in vista di una nuova edizione di Entreprecariat a distanza di quasi sette anni… Nel libro avevo indagato varie dimensioni influenzate dall’incontro tra imprenditorialità e precarietà, una convergenza estrema che fa di ogni cosa una cosa temporanea e instabile. Tra di esse, lo spazio: nel 2018 la città si stava trasformando in un ufficio a cielo aperto e in molti cominciavano candidamente a definirsi “nomadi digitali”. Oggi tale etichetta equivale quasi a un insulto. A Lisbona, dove vivo, sono comparsi sui tavoli di caffè non proprio autentici – tutt’altro che “sinceri”, come si dice a Milano – gli sticker con divieto di laptop. Questo è solo un sintomo della crescente ostilità verso il boss di sé stesso che svolazza agilmente senza farsi carico di alcun contesto all’infuori della propria attività, la cui versione più sociopatica, monomaniaca e disperata è il fuffaguru. Ma come si fa a prendere sul serio i suoi vaghi precetti dopo il covid o le grandi dimissioni? Ormai il fuffaguru è una figura da commedia dell’arte, la versione contemporanea di un Arlecchino o un Balanzone. Eppure qualcosa di vero c’è, ed è proprio l’”autentica menzogna” del fuffaguru. Parafrasando Pessoa: «Il fuffaguru è un fingitore. Finge così completamente che arriva a fingere che è successo il successo che davvero ottiene.» (vedi a tal proposito il ritratto che Raffaele Alberto Ventura fa di Maicol Pirozzi). Insomma, il mito del lavoro, specialmente quello autonomo e aspirazionale, ha perso mordente, lasciando però spazio a una retorica della cura di sé che, a essere onesto, trovo lacrimevole e un po’ ipocrita: si fa di un antilavorismo morbido un nuovo contenuto posizionale, laddove in verità pochissimi sono disposti a rallentare, pur potendo.

In ogni caso manca la dimensione collettiva dei discorsi sul lavoro. In generale vedo una grande sofferenza psichica, derivante forse da una grande solitudine, tanto nei casi di successo che nei fallimenti più conclamati. È il paradosso della militanza di certi influncer politici: come si può fare militanza in solitudine?

Per me la vera domanda è come (e se) si può fare ancora militanza collettivamente. I vari contesti associativi si sono indeboliti, la protesta in primis, ridotta quasi sempre a evento, referente privo di significato, souvenir del collettivo. Lo racconta bene Anton Jäger in Iperpolitica, un libro che considero fondamentale. Poi, per quel che mi riguarda, la stessa parola “militanza”… non credo mi appartenga: suona retorica, aspirazionale. Perciò la lascio volentieri agli attivisti, e per attivisti intendo quelle persone che fanno parte di gruppi e movimenti. La parola “militanza” non credo appartenga nemmeno all’influattivista, che è una delle declinazioni dell’hustler di cui parlavamo all’inizio. Così, per chiudere il cerchio.